PERCHÉ SIATE IN COMUNIONE CON NOI
Carissimi,
sfocia davvero in un estuario a sorpresa quel fiume, dalle anse solenni, descritto con tante puntigliose determinazioni sensoriali nella prima lettera di San Giovanni apostolo: «Ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo veduto… ciò che abbiamo toccato… noi ve lo annunciamo».
Ve lo annunciamo. Ma per quale scopo? Qual è l’obiettivo ultimo
di questa così importante trasmissione? Dove tende questo incoercibile bisogno di partecipare ad altri una verità che si è avuta la sorte di contemplare con i propri occhi e di annunciare al mondo il Verbo della vita che si è provato il brivido a stringere con le proprie mani?
Ecco l’uscita a sorpresa: «perché anche voi siate in comunione con noi».
Tutto qui?
Diciamolo francamente, uno si sarebbe aspettata una conclusione diversa. Ad esempio: perché anche voi otteniate la vita eterna. Oppure: perché siate accolti anche voi dalla tenerezza di Dio. O addirittura: perché pure voi diventiate annunciatori delle meraviglie compiute dal Signore.
E invece, no. Quel finale ci spiazza. Ci coglie impreparati. Quella battuta imprevedibile ci disorienta. Ci sbilancia su versanti inattesi: «perché anche voi siate in comunione con noi».
Ne deriva che il primo fondamentale obiettivo che i testimoni di Gesù devono raggiungere è quello di creare comunione tra fratelli, e cioè una comunità di persone che si vogliano bene e che, poi, insieme tendano verso di lui.
È come organizzare una concentrazione di gente, radunandola insieme, in vista di un viaggio per il quale i mezzi di trasporto privati sono ritenuti inadatti.
Sicchè il compito di ogni portatore di lieti annunzi cristiani non è tanto quello di mettere direttamente in contatto il Signore del cielo con l’uomo della terra, quanto quello di operare l’inserimento dei singoli all’interno di una comunità di credenti.
Vi ricordate quel celebre numero 9 della Costituzione dommatica sulla Chiesa? «Piacque a Dio di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo».
In latino, la frase è ancora più perentoria. Ve la voglio dire, anche se non tutti conoscete il latino: «placuit eos in populum constituere». Gli è piaciuto innestarli in un popolo.
Per scendere al concreto, la vostra missione di catechisti, più che nello stabilire il cosiddetto «feeling» tra un ragazzo e Gesù, consiste nell’orientare i passi di chi è affidato alle vostre cure verso la comunità di cui voi siete espressione.
In fondo, la domanda essenziale che oggi vi viene rivolta, volere o no, è la stessa che Andrea e Giovanni un giorno rivolsero a Gesù, sulle rive del lago, alle quattro del pomeriggio: «Maestro, dove abiti?». E la vostra risposta di catechisti non può discostarsi da quella di Gesù: «Venite e vedrete». E la conclusione di tutta la vicenda non potrà essere che quella descritta dal vangelo: «Andarono, dunque, e videro dove abitava, e quel giorno si fermarono presso di lui».
Carissimi catechisti, se è vero che la domanda primordiale che a ognuno di voi viene rivolta è «maestro, dove abiti?», vuol dire che anche voi, rispondendo come Gesù «venite e vedrete», dovete essere in grado di mostrare la casa comunitaria dove abitate.
Solo all’interno di questa casa i vostri ragazzi potranno conoscere il Signore, e, per giunta, ne saranno così affascinati, che sentiranno poi il bisogno di andar fuori per annunciare anche agli altri la buona notizia: «abbiamo trovato il Messia».
Diversamente ogni loro contatto col Maestro sarà labile, se non altro nel senso che, quando lo avranno smarrito, per essi sarà difficile ritrovarlo dal momento che non conoscono la casa dove egli abita.
Le due conclusioni che, a questo punto, vorremmo tirare sembrano fin troppo scontate.
La prima è questa: la comunità è un transito obbligato. È una tappa che non si può saltare. Non può essere considerata come un «optional» lasciato alla sensibilità degli interessati o come un accessorio teso a facilitare, con la sua forza emotiva ed esemplare, l’accoglimento dell’invito di Dio. È un passaggio che, con una parola difficile, possiamo chiamare «propedeutico» perché, se non viene superato, blocca il resto del cammino.
È attraverso la comunità che si comunica col cielo.
Forse l’esempio è un po’ rischioso, ma non a tal punto da doverlo ritenere eccentrico: dalla terra il singolo può raggiungere telefonicamente il Signore solo passando attraverso il centralino della comunità. Non ci sono altri prefissi che, permettendone l’aggiramento, consentano chiamate dirette.
Ed ecco la seconda conclusione: se il primo impatto che come catechisti dovete provocare è quello con la comunità, bisogna fare di tutto perché essa non deluda chi vi entra, pregiudicando, forse anche irreparabilmente, l’ulteriore incontro col Signore.
Dovete impegnarvi, perciò, con tutta l’anima affinché le vostre comunità offrano al mondo l’immagine della vera accoglienza cristiana. Siano perimetri di profonda umanità, non appartamenti recintati dove si pratica il rifiuto. Luoghi in cui si sperimenta il perdono, e non case di intolleranza dove si discrimina il diverso. Spazi in cui vibra una fede ardentissima e non meandri dove serpeggiano scetticismo e indifferenza. Verande sfinestrate da dove si contemplano speranze inarrivabili, e non ridotti malinconici in cui prevale la cultura del lamento. Palestre dove ci si allena alla carità e non ambiti in cui l’egoismo la fa da padrone creando spaccature.
Se le cose stanno veramente così, il vostro mestiere primordiale è quello di essere costruttori di comunità.
Il Signore vi conceda la gioia di investire tutto in questa avventura edilizia: al limite della speculazione.
18 marzo 1990 + don TONINO BELLO