Carissimi catechisti,
a dire il vero, la letteratura popolare, quella che si esprime in aforismi e in detti sapienziali, non ci aiuta molto.
Anzi, a furia di ripetere che la parola è d’argento mentre il silenzio è d’oro, finisce col persuaderci che, davvero, a tacere non si sbaglia mai.
Dal canto loro, gli anziani in vena di sentenze ci avvertono che la natura ha messo la bocca tra due orecchie, e che la lingua ha dapprima la barriera dei denti e poi quella delle labbra: sicché perfino da queste collocazioni geofisiologiche siamo indotti a guardare la parola con un alto tasso di sospetto.
Se poi al massimario corrente si dà la veste latina, il gioco è fatto: «dixisse aliquando poenituit, tacuisse nunquam» esclamava non so chi. Che vuol dire: «qualche volta mi son pentito di aver parlato; di aver taciuto, mai».
Come si vede, il discorso che porta acqua al mulino del silenzio potrebbe continuare all’infinito: e con argomentazioni che vanno dalla filosofia alle citazioni bibliche. Ci accorgeremmo alla fine che il tacere, nei convincimenti comuni dettati dal buon senso, guadagna ai punti sul parlare. La qual cosa mi sembra anche giusta. Nella bocca chiusa, non entrano mosche: diceva Miguel Cervantes. Il quale, però, non si è pronunciato sulla opportunità di tener chiusa la bocca se, per preservarsi dalle mosche, si è costretti a ingoiare i rospi.
Eccoci, allora, alla domanda cruciale: il tacere è sempre una virtù?
La Bibbia non sembra di questo avviso. Non solo perché, al capitolo terzo del Qoelet, ci avverte che «c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare», ma anche perchè ha introdotto una categoria che costituisce l’antitesi del pavido silenzio di fronte alla verità e alla giustizia: la parresia.
Che cosa è la parresia? È il parlar chiaro, senza paura e senza tentennare di fronte alle minacce del potere, quando bisogna rendere testimonianza alla verità: «Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato». Così esclamarono Pietro e Giovanni davanti al Sinedrio.
Gli apostoli erano stati precettati più volte di non parlare di Gesù Nazareno. Ma di fronte a un comando del genere, pur consapevoli delle torture con cui avrebbero pagato la loro disobbedienza, non se la son sentita di tacere e hanno proclamato con coraggio la verità. «Annunziavano il regno di Dio e insegnavano le cose riguardanti il Signore Gesù con tutta franchezza e senza impedimento»: è il versetto finale degli Atti degli Apostoli.
Con tutta franchezza. Senza peli sulla lingua, cioè. Senza sfumare le finali per paura di quieto vivere. Senza mettere la sordina alla forza prorompente della verità. Senza decurtare la Parola per non recar dispiacere a qualcuno. Senza ambiguità dettate da prudenze carnali. Senza le furbizie escogitate dalla preoccupazione di salvare la pelle. Senza gli stratagemmi del defilarsi nei momenti della prova, per timore di compromettersi troppo.
Ecco. Noi oggi dovremmo chiedere al Signore la grazia della parresia.
Anzitutto per le nostre Chiese. Perché riscoprano la loro missione profetica, e non tacciano di fronte alle violenze perpetrate sui poveri. Perché sappiano intervenire con coraggio ogni volta che vengono violati i diritti umani. Perché non tremino di fronte alle minacce, e parlino con franchezza: senza operare tagli sulla interezza della Parola e senza praticare sconti sul prezzo di copertina quando i diritti di Dio vengono subordinati agli interessi degli innumerevoli idoli che pretendono il suo posto.
E poi, oltre che per le nostre Chiese, dovremmo implorare il dono della parresia per tutti gli uomini che amano la verità. Perché con i loro pretestuosi silenzi non interrompano gli esiti della giustizia. Perché non vestano di apparente virtù il loro pauroso tacere. Perché usino la lingua come spada a doppio taglio, quando si tratta di recidere i legami adulterini con i poteri mafiosi. Perché comprendano che l’omertà, oltre che connotare di vigliaccheria colui che non parla, consolida quelle sotterranee strutture di peccato che avviliscono la storia e rallentano il cammino della pace. Perché si rendano conto che la connivenza di chi tace di fronte a un delitto, di cui conosce le trame genetiche, ha la stessa gravità morale di chi quel delitto stesso ha architettato ed eseguito. Perché le madri coraggio infittiscano dei loro nomi i calendari laici, così come i santi infittiscono della loro testimonianza cristiana il martirologio romano. Perché chi viene taglieggiato dai rackettari si renda conto che possiede un’arma di difesa più potente di qualsiasi bomba al plastico che metta in pericolo la sua azienda: la parola. Perché chi, per un triste destino o per solidarietà di parentela, ha conosciuto l’oscena economia sommersa della droga, sappia che una parola di denuncia pareggia i benefici di dieci case di accoglienza per tossicodipendenti. Perché la verità deposta nei segreti del cuore e impedita di esplodere nella pienezza della luce apra finalmente crateri improvvisi sulle fiancate del silenzio, e sgorghi come colata lavica fino a bruciare tutte le resistenze dettate dalla paura.
È vero: c’è un tempo per tacere e c’è un tempo per parlare.
Quello che oggi stiamo vivendo è il tempo per parlare. E voglia il cielo che tutti ci persuadiamo di questa verità: che delle nostre parole dobbiamo rendere conto davanti al tribunale della storia, ma dei nostri silenzi dobbiamo rendere conto davanti al tribunale di Dio.
+ don TONINO BELLO