CIÒ CHE NOI ABBIAMO CONTEMPLATO
Carissimi catechisti,
un po’ di etimologia non guasta. Soprattutto quando aiuta a entrare nel mistero delle cose.
Ricordo che mi colpì molto la derivazione della parola «tempio». Viene da un verbo greco, «temno», che significa tagliare, e indica appunto lo spazio libero della campagna che i sacerdoti pagani di una volta delimitavano tracciando nell’aria dei confini ideali con una verga. Entro questo spazio circoscritto essi osservavano attentamente il volo degli uccelli, per interpretare la volontà degli dei e così presagire il futuro.
Tempio, quindi, è l’area sacra al cui interno la volontà divina si esprime con alcuni segni particolari. I quali, però, per essere colti, richiedono silenzi rigorosi, occhi attentamente rivolti al cielo, spasimi di attese prolungate, disponibilità a lasciarsi afferrare dall’inedito di Dio, accorate implorazioni perché Egli finalmente si riveli.
Se poi a «tempio» premettiamo la preposizione «con», viene fuori la parola «contemplare», che vuole esprimere fondamentalmente due cose.
Anzitutto, scrutare la presenza di Dio, origliando la sua imprevedibilità, e bruciando dal desiderio di fissare gli occhi su di lui: «Il tuo volto, Signore, io cerco. Fammi scorgere il tuo volto».
In secondo luogo, vivere questa esperienza insieme con gli altri. Quasi per evitare il sospetto che, vissuta in solitudine, possa scadere nell’intimismo, o incagliarsi nelle secche dell’astrattezza, o, peggio, favorire la fuga dalla realtà.
Perdonatemi l’indugio un tantino sofisticato. Ma chi sa che, dopo l’irruzione nel mistero della parola, non riusciamo a penetrare meglio il senso di quella affermazione di Giovanni il quale, in buona sostanza, dice che non è possibile parlare agli altri del Verbo di Dio se prima non lo abbiamo «con-templato»?
Non c’è da illudersi.
Solo quando avremo le pupille abbacinate per l’attesa che Dio si riveli, e ci rimarranno dilatate perché al suo apparire avremo fatto il pieno della luce, solo allora potremo parlare di Lui.
E solo quando avremo gustato nel silenzio sapori che nessun libro ci ha dato, e saremo stati folgorati da illuminazioni interiori a cui nessun maestro ci ha introdotti, solo allora quelli che daremo al mondo saranno veramente lieti annunci.
E solo quando lo avremo implorato con abbandono e non giudicheremo le lacrime segno di debolezza, e la nostra preghiera assumerà cadenze di gratuità privilegiando la lode, solo allora allontaneremo il sospetto che, più che servirlo, ci si voglia servire di Dio.
E solo quando la romperemo con la smania di accostarci strumentalmente alla verità, con l’unico scopo cioè di trasmetterla senza averla prima goduta, e quando le vertigini della bellezza le avremo gioiosamente provate stringendo la mano dei fratelli per non precipitare, solo allora le nostre parole faranno venire agli altri il capogiro. Avranno, cioè, la forza di trascinarli sui crinali della prassi, perché non sono mai sterili le provocazioni di chi ha fissato il roveto ardente.
Chi contempla Gesù, senza rincorrere suggestioni di fuga dal mondo, senza accarezzare evasioni dal terribile quotidiano, senza rinchiudersi a giocare il solitario di una spiritualità narcisista, ma anzi lasciandosi trascinare da una incontenibile voglia di annunciare il Regno, diventa necessariamente «contemplattivo».
Avete letto bene: «contemplattivo», con due consonanti.
Sì, perché l’urto del contatto esperienziale con Gesù provoca prima o poi uno squarcio nella vostra vita, e la colata di grazia, fuoriuscendo con prepotenza da questa diga, allargherà necessariamente le fiancate della storia, anzi della cronaca, perfino della cronaca nera.
Preghiera e azione, cioè, si coniugheranno a tal punto in voi e faranno tanta sintesi armonica, che tutta la vostra vita sarà la dimostrazione vivente di come amare Dio non significa diffidare del mondo.
E lo amerete davvero il mondo. E gli farete compagnia.
«Ciò che noi abbiamo contemplato».
Carissimi catechisti, mi sembra perfino superfluo aggiungere a questo punto che il silenzio, la meditazione, la sosta prolungata davanti al tabernacolo, un po’ di deserto, la preghiera liturgica… assicureranno al vostro impegno spessore di autenticità e imprimeranno su tutti i vostri gesti ecclesiali un marchio di origine controllata che garantirà contro ogni sofisticazione. Come pure mi sembra fuori posto aggiungere che, insieme con gli altri e in profonda sintonia con la comunità, i segni del Cielo è più facile decifrarli senza correre il rischio dell’abbaglio.
Un’altra cosa voglio dirvi: contemplare non è facile.
È come ingaggiare una lotta con Dio.
Vi ricordate quella notte trascorsa da Giacobbe nella estenuante e misteriosa battaglia, che si risolse solo all’alba, e lo lasciò claudicante per sempre? Ecco, contemplare significa in un certo senso combattere con Dio. Di notte. In uno sconvolgente «a tu per tu». Quasi per strappargli il segreto della felicità. Quella felicità che inseguiamo tutta una vita.
Vi auguro, allora, che vi lasciate sedurre da questa voglia di lottare con Dio.
E che all’alba, dopo la battaglia notturna, vi ritroviate con le ossa rotte.
Come Giacobbe, appunto.
Vi saluto.
11 febbraio 1990 + don TONINO, Vescovo