CIÒ CHE NOI ABBIAMO UDITO
Lettere ai catechisti

Carissimi catechisti,
non c’è nulla che desti tanto sospetto quanto l’esperienza di certi adulti.
Specialmente quando viene esibita con quelle antipatiche notazioni di moralismo e con quelle ossessionanti intenzioni normative che non lasciano respiro a ipotesi di segno contrario, e che finiscono, in ultima analisi, col dare ragione al sorriso beffardo degli scettici.
«I vecchi si riducono a dare buoni consigli per consolarsi dell’amarezza di non essere più in grado di dare cattivi esempi», diceva un celebre epigrammista francese.
Anche se non ce la sentiamo di sottoscrivere questa frase ingenerosa, avvertiamo, però, che l’esperienza sbattuta noiosamente in prima pagina come criterio di valore e rifilata in ogni discorso col suo gravame di saccenteria, diviene così repellente da indurre spesso l’interlocutore, se non altro per bisogni estetici, a tentare l’esperienza contraria.
Occorre, perciò, tantissimo pudore quando si ricorre all’esperienza personale. Se no, si corre davvero, il rischio che essa, se non proprio controproducente, diventi per lo meno insignificante, così come diceva non so più chi, il quale paragonava l’utilità dell’esperienza a quella di un biglietto di lotteria dopo l’estrazione.
Sapete perché ho voluto dirvi queste cose?
Perché abbiate a comprendere bene il senso di una frase che vi sentite spesso ripetere: «di Gesù Cristo, possiamo trasmettere agli altri solo ciò che abbiamo sperimentato».
È una verità sacrosanta. Perché il Maestro non si lascia descrivere dagli specialisti del semplice «per sentito dire». Non tollera il racconto sulla sua persona, se chi lo fa non avvalora quel che dice con le stigmate luminose di ciò che vive.
In questo caso l’esperienza coincide con l’umiltà e non ha nulla da spartire con la protervia magisteriale. Diviene condivisione di silenzi eloquenti e non girandola pedante di parole. Assume i tratti del servizio discreto e non il taglio dell’imposizione arrogante. Rifugge dallo stile sentenzioso e privilegia il codice di trasmissione dell’esempio. È contrassegnata dal contagio della gioia e non lascia trasparire la smorfia del disappunto. Provoca comunioni con l’immediatezza dell’istinto e diffida dei consensi che sappiano di forzatura.
«Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato… noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi… e la nostra gioia sia perfetta».
È l’attacco splendido della prima lettera di Giovanni. Mi verrebbe da pensare che l’apostolo l’abbia scritto per i catechisti, perché sia il loro breviario capace di scandire la liturgia delle «ore» dell’annuncio cristiano e il companatico che dia sapore esistenziale al pane della parola che essi spezzano ogni giorno per gli altri.
«Ciò che noi abbiamo udito».
Carissimi catechisti. Chi sa quante cose avete udito «di Lui»! Siete reduci da tanti corsi biblici. Da cento tavole rotonde. Da molti seminari di aggiornamento dottrinale. Da un’infinità di dibattiti cristologici. Avete messo a punto, per l’anno catechistico che in questi giorni si apre, raffinate metodologie che vi mettano in grado di trasferire agli altri ciò che voi avete imparato di Lui. Sono realtà splendide, per le quali vi auguro che non abbiate mai a provare i segni della noia e la stanchezza della ripetitività.
Se, però, posso farvi un augurio più forte, avvalorandolo magari con tanta preghiera per la vostra missione, vi dico semplicemente così: il Signore vi renda strumenti capaci di ripetere tutto ciò che avete udito di Lui, ma soprattutto vi dia una vita così trasparente, da non poter nascondere agli altri ciò che avete direttamente udito «da Lui».
Solo allora, sulle vostre labbra, le parole acquisteranno cadenze di lieti messaggi e ritmi di cose vere.
Un affettuoso saluto

8 ottobre 1989 + don TONINO, Vescovo BELLO

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