LA CATTEDRA DEL NEBO

di don Tonino Bello

Carissimo Mosè,
credo che non ci sia nessuno sulla terra, per quanto pronto a toccar ferro quando si fanno certi discorsi, che non si sia fermato a fantasticare sulle modalità della propria morte.
Io, quando penso alla mia, vorrei tanto che rassomigliasse alla tua.
Quel finale a sorpresa, infatti, con cui ti sei congedato dal palcoscenico della storia mi ha sempre affascinato, fin da quando, ancora ragazzino, mi sono interessato delle tue vicende.
Tre cose mi colpirono subito della tua morte. Prima di tutto il fatto che sopraggiunse quando avevi appena centoventi anni. Mi parve già una misura accettabile, che ti riconduceva a dimensioni umane, dopo il rotolare di tutti quei personaggi biblici che, se non campavano meno di nove secoli, sembrava che fossero maledetti da Dio.
In secondo luogo quel tuo scomparire antieroico, in perfetta solitudine, sulle alture del monte Nebo che, perfino nelle assonanze del nome, mi richiamava brume autunnali e cadere di foglie.
E infine quel tuo abbandono di scena, sulla quale avevi recitato il ruolo del protagonista, molto tempo prima che calasse il sipario.
Ci saremmo aspettati tutti il tuo ingresso trionfale nella terra di Canaan, verso cui avevi guidato il popolo ebreo. Sarebbe stata una splendida conclusione, in linea con i poemi epici più celebri.
Invece no. Il condottiero non assaporerà l’ebbrezza della gloria! Lascerà ad altri la mietitura degli applausi. Si fermerà in vista della meta, sospirata per quarant’anni. Come un corridore che, dopo aver condotto sempre in testa la corsa, si piana a pochi metri dal traguardo.
Gli ultimi capitoli del Deuteronomio cadenzano i tratti della tua morte con la tenerezza di un’elegia, sia pur sovrastata dalla ineluttabilità delle disposizioni divine: Sali su questo monte degli Abarim, sul monte
Nebo, che è nel paese di Moab, di fronte a Gerico, e mira il paese di Canaan… Tu vedrai il paese davanti a te, ma là, nel paese che io sto per dare agli Israeliti, tu non entrerai.
Numero degli anni a parte, mi piacerebbe proprio un tramonto come il tuo. Lontano dalle luci della ribalta. Col cuore ancora gonfio di passione per la vita. Con gli occhi fiammeggianti nel riverbero di cento ideali. E col dito puntato verso la terra dei miei sogni.
Carissimo Mosè, non so quale sia stata la tua reazione di fronte all’improvviso decreto di Dio, che ti sottraeva, di punto in bianco, la gioia di coronare una missione per la quale avevi consacrato tutta la vita.
Una cosa è certa: non ti sei ribellato. Anzi, umilmente, hai preso atto del tuo peccato di infedeltà compiuto li, a Meriba, nel deserto, quando il popolo, imbestialito per la sete, si rivoltò contro Dio e tu, in un certo senso, facesti combutta con lui.
A dire il vero, i sacri testi non precisano la natura di questa tua colpa misteriosa. Forse ti tremò la mano e percotesti due volte, invece che una, la roccia dalla quale il Signore ti disse che avrebbe fatto scaturire l’acqua. Forse la combinasti ancora più grossa. Non lo so. E non voglio indagare. Sono fatti tuoi. Certo fu l’unica tua “défaillance”, ed era giusto che la pagassi cara: un capo come te non può permettersi cedimenti in fatto di speranza!
Ti riscattasti, comunque, sulla tua colpa antica con un finale di eccezionale bellezza. Chiamasti a raccolta il popolo per l’ultima arringa appassionata, intonasti un canto di gratitudine a Dio, benedicesti ad una ad una tutte le tribù di Israele, e poi, poggiandoti sul bastone che si era incurvato sotto il peso di una vita troppo gravida di mistero, salisti dalle steppe di Moab sulla vetta della montagna. E fu lì, su quel piedistallo di granito, che ti ergesti con tutta la statura di uomo della speranza.
Ti ritornò in mente il fuoco del roveto. E nel crepitare di quelle fiamme rileggesti la tua vita: la chiamata da parte di Dio, la missione di liberatore del popolo, la resistenza passiva contro il faraone, il ristagno nei Laghi Amari, l’epopea del Mar Rosso, le vertigini del Sinai, i giorni fervidi dell’Alleanza, le fatiche del deserto. Ti vennero alla memoria i discorsi e i gesti con cui, per quarant’anni, avevi alimentato nel popolo la speranza della Terra Promessa…
Ora, però, dovevi troncare. Era giunto per te il momento di un altro esodo.
Ma non ti colse lo sconforto. Non ripiegasti negli spazi della delusione. Né ci fu ombra di crisi nel corrugarsi della tua fronte.
Niente paura: altri avrebbero assaporato il latte e il miele scorrenti dai monti di Giuda o dalle terre di Efraim e di Manasse.
A te bastava averne fatto pregustare la dolcezza. Fu così che si consumò sul Nebo la tua estasi di terra. Come sul Sinai si era consumata la tua estasi di Dio.
E il tuo corpo, pago di contemplazioni, si adagiò tranquillo al di qua della frontiera.
Forse avrai già capito il motivo per il quale ti ho scritto: per recuperare, nella lettura dei tuoi comportamenti, lo stile che deve caratterizzare la nostra speranza.
Tu sei, infatti, l’icona di tutti coloro che non entreranno mai nelle terre promesse che hanno additato agli altri come a portata di mano. Sei il simbolo, cioè, di tutti i profeti dalla carriera stroncata.
Oggi, di questi profeti, ce ne sono tanti. Solo che spesso, a differenza di te, corrono il rischio di interpretare la stroncatura come fallimento.
No. Non possiamo lamentarci che ci sia penuria di messaggeri di lieti annunci. Solo che spesso, a differenza di te, quando si accorgono di non poter toccare con le proprie mani ciò che hanno indicato come imminente, leggono il ritardo come sconfitta, mutano la danza in lamento, e cambiano l’abito di festa nelle gramaglie del lutto.
È un pericolo che si corre un po’ tutti: specialmente nel campo variegato dei costruttori di pace, laddove è difficile capire che portare avanti certi ideali significa anche accettare di fermarsi molto più in qua delle mete intraviste.
Ho conosciuto tanti amici che hanno speso la vita per battersi contro la guerra, si sono consumata l’anima per promuovere l’avvento della giustizia, sono giunti a figgere gli occhi in imminenze di mondi nuovi abitati dalla pace… poi, all’improvviso, hanno perso l’entusiasmo rompendo proprio sulla dirittura d’arrivo. Che cosa era successo? Hanno visto, magari, che la guerra esorcizzata dal Golfo è riemersa in Jugoslavia, spenta nel Centro America è divampata nel Sudan, snidata dalle tenebrose caverne nucleari è ricomparsa nei funesti apparati delle armi convenzionali con la stessa quota di desolazione e di morte… e si son ritirati delusi: tanto, non c’è nulla da fare!
Ho conosciuto tanti apostoli della nonviolenza attiva correre su e giù per additare spazi affrancati dall’odio e dalla logica della forza. Ma poi è bastata la rimonta dei messaggeri di segno contrario, o la sufficienza teologale degli accademici, o l’irrisione bruciante del “maitre à penser” di turno… e si sono accasciati distrutti.
Non hanno saputo superare, come te, il punto critico di rottura, da cui o sgorga la speranza o dilaga la disperazione. Sono entrati in crisi da insuccesso. Hanno visto, cioè, allontanarsi le frontiere delle loro calde utopie, e non hanno avuto più neppure il coraggio di additarle ai loro compagni di strada.
Abbiamo, perciò, bisogno del tuo esempio. Grazie, carissimo Mosè, per il dono dei tuoi occhi non ancora stanchi di scrutare e per la simbologia del tuo braccio non ancora pago di additare traguardi.
Grazie, sì, per la lezione che ci hai impartito dalla cattedra del Sinai.
Ma infinitamente più grazie per la lezione che ci hai offerto dalla cattedra del Nebo.
Perché da quella cattedra sei sceso dopo quaranta giorni.
Su questa, invece, ci sei rimasto per sempre.
Come una statua di marmo, eretta alla speranza.

Seguici: