PORTAVOCE, NON PORTABORSE

di don Tonino Bello

Carissimo Aronne,
scusami se non ti chiamo reverendo.
Ma un appellativo del genere mi sembra troppo povero per te, che sei universalmente riconosciuto come il capostipite della classe sacerdotale del Vecchio Testamento.
Noi oggi, per i pezzi grossi della gerarchia ecclesiastica, usiamo titoli più altisonanti, che variano dal monsignore all’eccellenza o all’eminenza e ancora più su. Ai tuoi tempi non so come andassero le cose.
Comunque, non ti scrivo perché, chiamato da Dio, hai ricoperto la carica di sommo sacerdote a favore del popolo ebreo peregrinante nel deserto. Anche se, a dire il vero, mi piacerebbe moltissimo soffermarmi su alcuni aspetti della tua figura ieratica.
C’è, per esempio, una frase nel capitolo 18 della Sapienza che mi suggestiona per le sua incomparabile bellezza. Parlando dei tuoi abiti, si dice: Sulla sua veste lunga fino ai piedi vi era tutto il mondo.
Verrebbe la voglia di imbastire su quella veste un ricamo di riflessioni intorno al ministero di salvezza, che il sacerdote oggi deve esprimere nei confronti della terra.
Ma lasciamo perdere. Mi rivolgo a te per ben altri motivi. O meglio, desidero confrontarmi con te perché hai offerto, come nessun altro nella storia, l’esempio di che cosa significa essere il luogotenente di un personaggio famoso. Vedi, noi oggi siamo infestati da un genere pericoloso di parassiti. Abbiamo dovuto inventare un vocabolo nuovo per indicarli con esattezza: portaborse.
Si tratta di una categoria di individui rampanti, che crescono all’ombra dei grandi protagonisti, e di null’altro sono preoccupati se non della propria carriera.
La carriera. Una parola che in antico richiamava l’andatura veloce del cavallo, ma che oggi richiama l’attitudine strisciante della lumaca. La carriera. Questa spregiudicata professione dell’arrivismo per cui ogni soldato francese, come amava dire Napoleone, porta nella sua giberna il bastone di maresciallo di Francia. La carriera. Questa viscida idolatria degli arrampicatori sociali, dinanzi al cui altare tanta gente offre olocausti, peggio di come faceva il popolo ebreo davanti al vitello d’oro fatto costruire da te.
Tu sei vissuto all’ombra di tuo fratello Mosè. Ma non ne hai approfittato per farti una posizione. Gli sei stato accanto per tutta la lunghezza dell’esodo. Ma non hai manovrato le carte per trarne vantaggi personali.
Hai fatto strada, insomma. Tanta strada. Per quarant’anni. Nel deserto. Ma non hai fatto carriera. Perciò mi ispiri fiducia.
Dunque. Tu non sei stato un portaborse. Ma sei stato un portavoce. E c’è una bella differenza.
Il fatto andò così. Quando il Signore diede a tuo fratello l’incarico di recarsi dal faraone perché liberasse gli Ebrei, Mosè, che era balbuziente, avanzò delle riserve sulle proprie capacità dialettiche: Mio Signore, io non sono un buon parlatore… sono impacciato di bocca e di lingua.
Dio allora gli replicò che avrebbe potuto servirsi di te, e aggiunse: Io so che tuo fratello
Aronne sa parlar bene… parlerà lui al popolo per te… egli sarà per te come bocca.
Fosti così promosso, sul campo, al ruolo di addetto alle comunicazioni sociali. Divenisti il megafono fedele del capo. L’emanazione del suo pensiero autentico. Le sue esternazioni passavano necessariamente dal tuo ufficio. Senza censura. I bollettini ufficiali venivano redatti da te. E tutti i comunicati stampa, senza manipolazioni, portavano la tua firma.
Ma, oltre che portavoce, fosti anche portabastone. Non vorrei essere frainteso. Oggi noi, con una punta di disprezzo, chiamiamo portabastoni quei subalterni arroganti che, tralignando dai loro poteri, fanno pesare l’autorità del padrone sui loro dipendenti. Quegli acidi secondini, insomma, che approfittano della fiducia del principale per infierire sulla povera gente.
Per te, naturalmente, il vocabolo va inteso in tutt’altro senso.
Dio, nell’atto di congedare Mosè, dopo averlo scelto come condottiero del suo popolo, gli consegnò un bastone dicendo: Terrai in mano questo bastone, con il quale tu compirai prodigi. Era il segno del potere. Ebbene, tuo fratello ti associò anche nel compito di usare quello strumento miracoloso. E tu lo adoperasti con grande successo. La Bibbia ce lo ricorda più volte. Aronne gettò il bastone davanti al faraone e davanti ai suoi servi ed esso divenne un serpente. E ancora: Aronne alzò il bastone e percosse le acque che erano nel Nilo… e si mutarono in sangue.
Usasti, quindi, il potere del capo. Ma d’accordo con lui. Come pròtesi del suo braccio. Come interprete dei suoi voleri. Senza abuso in atti d’ufficio. E senza le subdole disonestà a cui, una volta entrati nella stanza dei bottoni, si lasciano andare i cortigiani di mezzo busto o i mazzieri di piccola cilindrata.
E, infine, oltre che interprete del pensiero di Mosè ed esecutore del suo potere, fosti anche il sostegno della sua implorazione.
L’episodio è bellissimo, e lo devo rievocare per la sua plasticità: da gruppo marmoreo scolpito sul monte.
Un giorno gli Ebrei vennero a battaglia con gli Amaleciti. Tuo fratello allora corse sul monte, insieme con te e con Cur, per implorare il Signore. Quando Mosè alzava le mani, Israele era più forte, ma quando le
lasciava cadere erano più forti i nemici. Siccome Mosè si sentiva accasciare dalla stanchezza, tu da una parte e Cur dall’altra sosteneste le sue mani. Che rimasero ferme fino a quando, al tramonto del sole, gli Israeliti sgominarono definitivamente gli avversari.
Eccoti, quindi, ancora una volta, a servizio del capo. Aiutante, non primo attore. Braccio destro, non protagonista. Discreto: perfino nei momenti del rapporto con Dio. Benché fossi il sommo sacerdote, hai respinto la tentazione di pensare che tu avessi col Padreterno una dimestichezza maggiore di quanto non l’avesse tuo fratello. E non ti sei sostituito a lui. Ma ti sei messo accanto a Mosè, senza oscurare la sua superiorità e senza mettere in discussione il suo ruolo di leader.
Carissimo Aronne, grazie per questo splendido esempio di trasparenza che ci offri.
O Dio, non è che nel deserto non abbia avuto anche tu le tue colpe. Basta pensare che ti sei reso complice, durante l’assenza di Mosè che stava sul Sinai, di una inqualificabile prostituzione generale davanti al vitello d’oro. Ma in quella tua connivenza va vista solo una crisi di debolezza di fronte alle mormorazioni del popolo. Non il tentativo di fare le scarpe al principale e soffiargli così la poltrona di comandante supremo. Anzi, chi sa che con quella tua “défaillance” tu non abbia voluto mettere maggiormente in risalto come fosse indispensabile la presenza di Mosè per la salvezza di Israele!
Hai avuto le tue colpe. Hai mormorato anche tu contro Mosè, mentre Myriam tua sorella ti faceva bordone. Però, tutto sommato, non ti sei mai lasciato prendere da quei “raptus” di gelosia, o da quelle sorde corrosioni dell’immagine del capo, a cui si lasciano andare spesso i cortigiani più vicini alla persona del principe: tanto vili nel lecchinaggio, quanto rapidi nel voltafaccia.
Hai avuto le tue colpe. Ma non hai avvilito la tua anima nella sfrontatezza autoritaria. E ti sei sempre mantenuto lontano da quella voluttà di sottopotere che sta mettendo a dura prova la nostra convivenza civile.
Oggi siamo assediati dai tirapiedi. C’è una inflazione di palloni gonfiati. Lo stuolo dei gregari si lottizza le aree del padrone. Il potere si frantuma nelle mani di fàmuli e giannizzeri di turno. La cerniera dei proseliti
diventa passaggio obbligato per chi voglia accedere, non dico alla zona dei privilegi, ma perfino a quella dei più sacrosanti diritti. Finanziamenti, appalti, assunzioni, piani regolatori, tangenti, vengono filtrati dallo svincolo dei sottocaliffi. Gli accoliti, poi, si aggregano e si scompagnano secondo spregiudicati calcoli di alchimia politica, tutti tesi a cogliere l’attimo opportuno per salire sul vapore e insediarsi alla sua guida.
Di qui, l’anima clientelare che ci portiamo dentro. Di qui, le molteplici sudditanze che, attraverso la lunga catena di vassalli, valvassori e valvassini, ci conduce a oscene genuflessioni. Di qui il cinismo con cui si spia il momento opportuno per far fuori chi comanda e prenderne il posto. Di qui, l’arroganza con cui il capo viene ricattato dagli arrampicatori che frequentano le sue segreterie. Di qui, l’imprudenza con cui il gerarca supremo è spesso tenuto in ostaggio dai suoi corrotti manutengoli.
Perdonami lo sfogo, carissimo Aronne. Ma parlare con una persona dal cuore incontaminato come il tuo mi solleva lo spirito.
Mi fa sognare tempi migliori, che certamente verranno. E mi fa fiorire
nell’anima la speranza in un mondo più pulito e più giusto. Così come, un giorno, fiorì il tuo bastone. Nel deserto.
Davanti alla tenda di Dio.

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