PROFUMO DI DONNA

di don Tonino Bello

Cara Myriam,
la prima cosa che voglio dirti è che il tuo nome, conservato nell’originaria sonorità ebraica, mi piace tantissimo. Anzi, ti confido che, prima ancora delle tue gesta, mi ha sedotto l’armonia di quelle due sillabe scritte sulla tua carta d’identità. Limpide come un plenilunio, sembrano alitate dal vento. Sanno di scoglio, incrostato di salsedine, a strapiombo sul mare. E profumano di foresta, quando essa si torce nelle struggenti malinconie dell’autunno.
Myriam!
Ma lasciamo perdere le galanterie, e veniamo al dunque. Ti scrivo perché voglio congratularmi con te. Per la tua forte personalità, niente affatto schiacciata tra quei due colossi dei tuoi fratelli, che seguisti
per quarant’anni, come ombra di refrigerio, sulle dune assolate del deserto.
Il video dell’Esodo straripa delle immagini di Mosè. E l’audio è tutto preso da Aronne, irresistibile colonna sonora del grande condottiero.
Per te, invece, solo tre brevi sequenze. Ma sono sufficienti per farci scorgere nella tua figura di donna il simbolo tutto moderno dell’audacia, della tenerezza e delle rivendicazioni del mondo femminile.
Primo tempo
Il faraone, allo scopo di sterminare gli Ebrei residenti in Egitto, predispone una violenta pianificazione delle nascite. Convocò le levatrici delle USLL e ordinò loro di far morire tutti i neonati maschi che le donne ebree partorivano. Ma esse, disobbedendo al faraone, organizzarono la più coraggiosa obiezione di coscienza che la storia conosca. Le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re d’Egitto e lasciarono vivere i bambini… Dio beneficò le levatrici.
Il faraone, allora, fu costretto a cambiare metodo. Si rivolse direttamente al popolo: Ogni figlio maschio che nascerà agli Ebrei, lo getterete nel Nilo.
Una forma allucinante di “birth control” che, a quanto pare, non si è del tutto dileguata neppure oggi, se al Nilo si sostituisce la pattumiera o, al cestello di vimini, il vaso di una pubblica toilette.
Ed è a questo punto che, tra i folti canneti del fiume, facesti capolino tu, dolcissima Myriam. Perché se ai tuoi genitori, dopo che nacque loro un bel maschietto, bastò l’animo di esporlo sul greto, tu, a costo di dover fare la sua stessa fine, non te la sentisti di abbandonare il fratellino. Sicché, quando la figlia del faraone giunse casualmente sulla riva per un bagno ristoratore, ed ebbe visto quel coso, e ne provò compassione, tu schizzasti dai giunchi e le facesti quella profferta che è un capolavoro di intelligenza: Devo andarti a chiamare una nutrice tra le donne ebree, perché allatti per te il bambino?
Mosè, dunque, si salvò in questo modo. Per quel tuo gesto di coraggio. Per quell’appostamento di vigile condivisione. Per quella coscienza della santità della vita, che ti permeava l’anima e ti faceva pericolosamente resistere di fronte agli ordini iniqui del tiranno.
Ebbene, a tremiladuecento anni di distanza, tu resti ancora la provocazione più eloquente per tutti coloro che si battono nel tentativo di salvare la vita dei bambini, esposta oggi, con una ferocia peggiore di quella di ieri, alle violenze strutturali di un’epoca per molti aspetti disumana.
Minori umiliati, sfruttati, venduti, percossi, uccisi. Neonati respinti nei cassonetti della spazzatura, senza neppure quei frustoli di pietà che, presso la porta dei conventi, aveva fatto inventare nei secoli scorsi “la ruota degli esposti”.
Venti milioni di bambini trascinati ogni anno dal fiume della morte, uccisi cioè dalla fame: nell’indifferenza della nostra faraonica civiltà, che si esalta per la contemplazione delle sue piramidi, ma è divenuta sorda al pianto degli innocenti.
Bambini sudamericani abbandonati al vortice delle metropoli, peggiore dei vortici del Nilo. “Ninos” brasiliani esposti alle violenze degli squadroni della morte, che li pestano a sangue e li uccidono senza pietà come fossero topi di fogna, perché disturbano il paesaggio per i turisti e la tranquillità dei signori.
Myriam, quante cose avresti da insegnarci!
Troveremo anche noi la sensibilità di costituirci sentinelle della vita indifesa, il coraggio di uscire dai canneti prudenziali dietro i cui cespugli consumiamo le nostre paure, e l’intelligenza propositiva nell’indicare il “latte” per i bambini che muoiono di fame?
Secondo tempo
Gli Ebrei, dopo aver attraversato il Mar Rosso, le cui onde avevano seppellito l’esercito del faraone, toccarono finalmente le sponde della libertà.
Ancora increduli per quanto era accaduto sotto i loro occhi, stavano contemplando i rottami del nemico sospinti alla deriva, quando tu, con un colpo d’ala tutto femminile, preso tra le mani un timpano, ti mettesti a capo di un corteo di donne. Le quali agitando anch’esse sistri e tamburelli, intrecciarono sulla sabbia un turbine di danze, scandite da un ritornello che facesti loro eseguire: Cantate al Signore perché ha mirabilmente trionfato: ha gettato in mare cavallo e cavaliere!
In questa tua estemporanea trovata, quasi un “raptus” di gioia, traspare molto di più che non la semplice gratitudine verso Dio, liberatore del suo popolo.
Si coglie, nel ritmo della danza inventata da te, non solo il bisogno di alzare al cielo le braccia per troppo tempo rimaste immobili nella vergogna delle catene, ma anche la voglia di mostrare al mondo mani non contaminate dalla laidezza della ferocia.
Si condensa, nelle volute dei vostri corpi di donna, roridi di profumi e di sudore, non solo lo spasimo della bellezza che non ha avuto da spartire nulla con la brutalità, ma anche lo stupore di un popolo che, per sottrarsi al nemico, non ha neppure sguainato la spada, non ha scoccato una freccia, non ha sospinto un giavellotto, non ha roteato una fionda.
Vibra, nel fremito del ritornello intonato dalla tua voce profetica, non solo il giubilo di chi ha trovato il riscatto da una lunga oppressione, senza essersi macchiato di sangue, ma anche un’aura di castità, propria di chi è stato preservato dalla sinistra frenesia della violenza.
E i piedi nudi delle danzatrici stampano, sulle sabbie del deserto, il bollettino della
prima strepitosa vittoria felicemente raggiunta senza apparati di guerra e senza roteare di armi. Cantate al Signore perché ha mirabilmente trionfato: ha gettato nel mare cavallo e cavaliere.
Grazie, dolcissima Myriam, per questo genio della difesa popolare nonviolenta, che ha trovato in te il lampo della festa, il brivido della poesia, e la tenerezza della lacrime di felicità.
Terzo tempo
Lo so. È una sequenza oscura della tua vita, che forse non ti piace rievocare. Non fosse altro, perché severamente censurata dal Signore.
Tutto partì da una discussione di famiglia. Tuo fratello Mosè aveva sposato una splendida Etiope, sul cui conto, non si capisce bene perché, tanto tu quanto Aronne trovaste da ridire.
Il motivo principale, però, del vostro mugugno, del tuo soprattutto, fu un altro. Mosè stava accentrando molti poteri nelle sue mani. Non lasciava spazio agli altri. La faceva da padrone un po’ troppo. Non teneva in gran conto i vostri personali carismi.
Forse senza accorgersene, riduceva a vista d’occhio i margini della vostra missione. Di qui, l’insofferenza che un giorno tu e Aronne, a bassa voce, vi comunicaste a vicenda: Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?
Non mi va di raccontare quel che ne seguì. Come, cioè, il Signore si adirò con voi due per quella mormorazione temeraria. E se la prese in modo particolare con te. Perché, mentre Aronne se la cavò con una sgridata, tu per punizione ti beccasti la lebbra. E fosti costretta a rimanere fuori dall’accampamento. E solo per intercessione del grande capo, dopo sette giorni riottenesti da Dio la guarigione.
Questi ricordi forse a te fanno male. Quanto a me, però, debbo dirti che mi esaltano. Anzi, accrescono la stima per la tua persona, perché sono un segno ulteriore della tua straordinaria femminilità e l’espressione più eloquente del tuo fortissimo carattere.
Custode della vita. Certo. È un tratto congeniale alla natura della donna. Sensibile al fascino della nonviolenza. Senza dubbio. È una variabile della tenerezza, che trova
soprattutto nelle figlie di Eva il terreno privilegiato di cultura.
Ma fiera della propria dignità di donna, attenta a reclamare i diritti, protesa ai livelli della parità sociale, e irriducibile alle prevaricazioni di Adamo… beh, questo appartiene a quella quota in più di coraggio di cui fosti dotata e che, a mio parere, se la tua storia fosse più conosciuta, ti renderebbe subito punto di riferimento per tutte le rivendicazioni del mondo femminile, ancora così subalterno, nella Chiesa e fuori, all’egemonia imperante del maschio.
Con quel moto di ribellione, tutto sommato, volevi far capire che la pasqua vera della liberazione non sarebbe mai cominciata, se, al riscatto degli Ebrei dalla schiavitù di dover cuocere i mattoni per le città degli oppressori, non corrispondeva l’affrancamento delle donne dalla condanna di dover perennemente cuocere per gli uomini le cipolle nelle pentole d’Egitto.
Mosè comprese l’antifona, e adoperò tutto il suo prestigio per ridurti la pena, anzi, per chiederne al Padreterno il condono completo. Forse aveva capito che, in fondo, avevi ragione e che, comunque, alla base della tua protesta c’era lo stesso sentimento che un giorno, ancora bambina, ti aveva spinta fuori dai giunchi del Nilo, e un altro giorno, sulle sponde della terra nuova, ti aveva fatto intonare canzoni di libertà.
Alitava, insomma, in tutte le sue scelte, lo stesso profumo. Profumo di donna. Nelle confezioni di lusso dell’audacia e della tenerezza. Ma anche nelle dosi forti della fiera protesta di fronte a ogni sopruso consumato sulla tua pelle. Mi fermo qui. Anche perché non vorrei essere accusato di aver fornito imprudentemente ai circoli femministi pericolosi argomenti biblici, strumentalizzabili per le loro rivendicazioni.
Carissima, mi dispiace tanto di non poterti chiamare per nome. Ma la Bibbia non te lo dà. E io ho capito perché: te lo spiegherò dopo. La tua vicenda, comunque, mi commuove. E siccome penso che non tutti la conoscano, desidero riassumerla in poche battute, così come ci viene raccontata nel libro dei Giudici.
Dunque: tu sei passata alla storia come la “figlia di Iefte”.
Tuo padre era un bastardo, di Galaad.
Benché forte e valoroso, proprio per quel marchio d’origine non controllata, era stato costretto a fuggire di casa e a camparsi la vita facendo il brigante. Messosi a capo di una masnada di facinorosi, eseguiva rapine a mano armata, assaltava carovane di mercanti nel deserto, e a chi lo prezzolava per qualche delitto eccellente offriva le sue prestazioni, secondo le regole della malavita organizzata.
Un giorno, gli anziani di Israele, pentitisi per averlo emarginato da Galaad, lo richiamarono in patria e gli proposero di mettersi alla testa del loro esercito: con un condottiero spericolato come lui, avrebbero avuto ragione degli Ammoniti, loro eterni rivali.
Iefte accettò, e divenne capo del popolo ebreo.
A dire il vero, oltre che intrepido in battaglia, si mostrò anche avveduto sotto il profilo diplomatico: inviò, infatti, una delegazione presso l’accampamento dei nemici, nella speranza di rimuovere pacificamente le cause degli antichi conflitti. Ma, nonostante i ripetuti tentativi, i negoziati non gli riuscirono, e dovette ricorrere alla soluzione militare.
È a questo punto che si innesta la tua malinconica vicenda, o dolcissima fanciulla senza nome.
Prima di attaccare battaglia contro gli Ammoniti, tuo padre, pensando di propiziarsi la benevolenza divina, fece un voto solenne: avrebbe offerto in olocausto al Signore la prima persona che, dopo l’eventuale vittoria, gli fosse andata incontro uscendo dalle porte di casa sua.
Un voto assurdo, feroce, di inaudita barbarie. Un voto che Dio stesso non avrebbe potuto accettare mai e poi mai, dal momento che, tanto nel Levitico quanto nel Deuteronomio, aveva condannato più volte operazioni criminali del genere, sia pure prodotte a fin di bene.
È inutile dire che la battaglia si concluse con la strepitosa vittoria di tuo padre. Così come è inutile dire che, nel ritorno verso casa, la prima creatura che gli corse incontro fosti proprio tu.
Ed eri la sua unica figlia!
Carissima fanciulla senza nome, nel racconto biblico c’è un inciso molto singolare, che accentua i toni del “pathos” narrativo e raddoppia la commozione di chi legge la tua storia infelice. Quando udisti che tuo padre stava arrivando a casa sporco di sangue e carico di gloria, ignara della tua sorte, gli andasti incontro con timpani e danze.
Avevi tanto sofferto la sua assenza, sola come eri, senza un fratello o una sorella e forse anche senza una madre, che non ti sembrava vero di poter stringere così presto le braccia attorno al collo del tuo genitore, reduce di guerra.
Gli preparasti, perciò, un numero fuori programma, con i mezzi più congeniali alle tue grazie di adolescente innamorata della vita: la musica. Una sorpresa che, ne eri certa, l’avrebbe fatto impazzire di gioia. Dopo tanto roteare di spade, con le pupille in cui si riverberavano ancora gli avvoltoi, tuo padre avrebbe finalmente visto dinanzi a sé volteggiare un gabbiano, agile nelle cadenze dei ritmi e assorto nell’ebbrezza del volo.
Splendida come uno stelo di primavera, ti avvicinasti a lui con passo di danza. Ma rimanesti agghiacciata da un urlo di dolore: Figlia mia, tu mi hai rovinato! Anche tu sei con quelli che mi hanno reso infelice! Io ho dato la mia parola al Signore e non posso ritirarmi!
Comprendesti immediatamente la tragedia che ti incombeva. Così come comprendesti il conflitto interiore di tuo padre, drammaticamente lacerato tra l’obbedienza a Dio e l’amore per te.
Non chiedesti grazia; ma, dopo averlo rincuorato a mantener fede alla parola data al Signore, gli chiedesti solo una piccola proroga: due mesi di tempo per andartene errando sui monti, a piangere, con le compagne, una verginità da cui non sarebbe maturata né gioia di sposa né tenerezza di madre.
Poi, il tragico epilogo. Alla fine dei due mesi tornasti da tuo padre, ed egli fece di te quello che aveva promesso con voto.
Non ti alzarono nessun monumento, se non quello del rogo. Ma in tua memoria, si introdusse una consuetudine che la Scrittura sembra porre come epitaffio sulla tua tomba: Ogni anno le fanciulle di Israele vanno a piangere la figlia di Iefte il Galaadita, per quattro giorni.
Ed eccoci al mistero del tuo nome. Perché mai tu, che, col profilo di una vicenda umana così nitida, hai commosso teologi, poeti e musicisti, da Abelardo a Byron a
Haëndel… sei passata poi nella storia con le brume dell’anonimato?
Perché mai dai tuoi documenti anagrafici è caduto proprio il nome, l’unico elemento di identificazione che ogni essere umano, vista la caparbietà con cui lo scolpisce sulla pietra, vorrebbe salvare dalle intemperie dei secoli? Perché mai la Bibbia ha voluto privilegiare amaramente tuo padre, che verrà sempre ricordato con i brividi del vituperio, e non ha privilegiato dolcemente te con una voce del calendario ebraico femminile?
Una spiegazione io ce l’avrei. Chi sa però, se gli esegeti me la faranno passare.
La Bibbia non ti ha dato un nome, perché tu ti chiami “moltitudine”!
Tu sei il simbolo di tutte le giovani vite che vengono sacrificate alla ragion di stato. Tu riassumi, nell’emblema cruento della tua tragedia, l’olocausto di milioni di bambini che, essendo le valvole più deboli dei sistemi violenti della storia, cadono fulminati per primi dalla logica delle armi. Tu rappresenti l’allucinante pedaggio al demone della guerra, che vuole essere pagato solo in soldi di castità. Con te, fiore di bellezza, fanno un sol fascio tutti i fiori, recisi dallo stelo e non ancora sbocciati, con cui l’umanità adorna gli altari di Marte.
Vedi: gli studiosi si sono accaniti nel dare a questo sconcertante episodio della tua vita una interpretazione che non compromettesse la santità di Dio facendolo apparire consenziente con le efferatezze degli uomini. E hanno presentato questa pagina come un relitto arcaico di pregiudizi religiosi, appartenenti a tempi ormai superati e mai condivisi dal Signore.
Una interpretazione ineccepibile. Ma che rimane incompleta, se non fa capire che questa tua storia vuole indicare almeno tre cose. Anzitutto, che la guerra è sempre un abominio, visto che richiede un prezzo così assurdo dal quale, come da un giuramento solenne, non ci si può tirare indietro. Poi, che quello di coinvolgere Dio nelle loro operazioni di violenza, quasi per coonestarle, è stato sempre uno squallido tentativo degli uomini. E infine, che far apparire la guerra più santa ancora della stessa vita appartiene alle ideologie più sacrileghe.
Chi concede vittorie in cambio di vite innocenti non è il Signore della pace e della salvezza, ma il dio della guerra e della morte.
Tu sei stata immolata da Iefte, tuo padre, non come ostia offerta a Dio, ma come omaggio pagato all’idolo.
Perciò, lo squarcio della spada paterna sul tuo giovane petto, più che una ferita, è una feritoia dalla quale è possibile scorgere eserciti inermi di fanciulli immolati a questo crudelissimo dio: i fanciulli curdi o iracheni, brasiliani o palestinesi, salvadoregni o filippini, del Bangladesh o dell’Etiopia, dei secoli passati o dei giorni presenti, uccisi dalle armi o uccisi dalla fame che è provocata dalla logica delle armi. Nella tua tomba confluiscono, come in un sacrario di dolore, le vittime di tutte le stragi degli innocenti.
Ecco perché sei rimasta senza nome, o figlia innocente di Iefte. Perché la tua storia non è finita. Tu sei la parabola di una tragedia che tarda a concludersi. La tua danza di bambina contrasta ancora con la torva ferocia del guerriero. Il sipario non è ancora calato sul tuo epilogo di sangue. Il tuo spettro molesta ancora i nostri sogni. Il tuo pianto non ha finito di turbarci.
E le tue compagne continuano a vagare per i monti.
Con le lacrime agli occhi e i capelli al vento.

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