CONTRAZIONI DI GREMBO

di don tonino Bello

Carissimo Esaù,
non voglio entrare nei tuoi fatti personali. Anche perché è difficile giudicarli. È vero che le sacre carte descrivono con abbondanza di particolari i tuoi rapporti burrascosi col gemello Giacobbe. Ma, sai, oggi gli interpreti sotto ogni parola biblica ci leggono tante di quelle allusioni e a ogni giro di frase scoprono il trabocchetto di tanti di quei sottintesi che, alla fine, tra critica comparata del testo e analisi strutturale del linguaggio, uno non sa più se dare ragione a te o a quell’imbroglione di tuo fratello. Perché, sia detto senza offesa, di un vero e proprio imbroglione si tratta. Baro matricolato. Truffatore incallito. Professionista della frode.
Tuo fratello l’inganno ce l’aveva nel sangue. Anzi nel nome. Giacobbe, infatti, ha una curiosa spiegazione etimologica. Come sostantivo, significa “calcagno”: forse perché quando è nato, qualche attimo dopo di te, ti teneva stretto il tallone con la mano preludendo a future rapine. Come radice verbale, invece, significa tendere tranelli, soffiare il posto, praticare lo sgambetto a livello scientifico.
E nella vita si è comportato così come il nome faceva preludere: da scippatore senza scrupoli. Ha scippato a te i diritti di primogenitura, approfittando della tua fame lupigna e prendendoti, come si suol dire, per gola. Ha scippato al vecchio genitore la benedizione patriarcale che sarebbe toccata a te, approfittando della sua cecità e camuffandosi sotto le tue spoglie.
Se ti scrivo, però, carissimo Esaù, non è perché voglia parlar male di tuo fratello o esprimerti la mia tardiva solidarietà per la sopraffazione subita. Non voglio intromettermi nelle faccende private di casa tua. È andata così, e bisogna prenderne atto. Punto e basta. Oltretutto, a quanto dicono gli esperti che hanno studiato la cosa, questa vicenda è l’ennesima dimostrazione di come il Padreterno sia “imperscrutabile” e, nelle sue scelte quasi sempre paradossali, non segua necessariamente le logiche umane. Per lui non ci sono automatismi legali, né primogeniture di diritto, né privilegi accordati per nascita. Le sue elezioni sono libere perfino dai condizionamenti del prestigio morale, tant’è che nel numero dei suoi beniamini figurano personaggi tutt’altro che raccomandabili.
Non prendertela, perciò, più di tanto se tuo fratello, ingordo di potere, ti ha fatto pagare così salata l’ingordigia di un piatto. Pazienza! Il suo nome, invece del tuo, sarà ripetuto in benedizione in tutte le promesse bibliche, e del Messia si dirà che regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe. Sulla casa di Giacobbe. Non su quella di Esaù, il peloso, uscito troppo presto dalla scena.
Il motivo, comunque, per il quale ti scrivo è un altro. Ed è dovuto a quel curioso particolare con cui il capitolo venticinque della Genesi ci dà l’annuncio della gravidanza di Rebecca, tua madre.
Essa, sterile per tanti anni, a un certo punto rimase incinta di voi gemelli. E il testo annota: Ora i figli si urtavano nel suo seno.
Non è un inciso secondario, rilevato magari sui referti della visita ginecologica. È invece un simbolo premonitore carico di presagi. Perché, di ostetrici, Rebecca non ne consultò. Ma si dice espressamente che:
andò a consultare il Signore. Il Signore le rispose: due nazioni sono nel tuo seno, e due popoli dal tuo grembo si disperderanno.
Ecco, se sei in grado, spiegamelo, Esaù.
Questo misterioso versetto biblico è per caso una rassegnata presa d’atto della nostra conflittualità all’ultimo sangue, che sarebbe così primordiale da non poterci far nulla? Sta a dire, cioè, con la sua forza allusiva, che la vita è tutta un gioco al massacro fin dal seno materno? E che urtarsi e spingersi e picchiarsi è una fatalità ineluttabile, che contrassegna gli esseri umani fin dal concepimento? E che la corsa per arrivare prima è un’esercitazione ginnica prenatale, che impegna al superamento dell’altro senza esclusione di colpi?
O, invece, il versetto biblico è un richiamo struggente all’unico grembo? Ed è un appello accorato, espresso con simbologie ancestrali, a ceppi comuni, a patrie indivise, a spazi senza tensioni? Anzi, chi sa che non nasconda nostalgie arcane verso quella vocazione planetaria alla solidarietà, per cui, se l’utero è uno, il genere umano è uno?
Insomma, sotto le righe, dobbiamo leggere i segni della resa alle leggi della lacerazione, o gli indicatori della profezia che allude a confluenze ecumeniche, dove ci sia posto per la convivialità e dove i fratelli, più che barattarla approfittando della fatica e della fame altrui, condividono la stessa coppa di minestra e gustano insieme la rossa pietanza di lenticchie?
La risposta a queste mie domande tu l’hai data con i fatti. Perché quando dopo tanti anni Giacobbe, stracolmo di paura per le tue reazioni, ritornò nella patria comune di Canaan controllata da te, tu, invece che fargli pagare il conto con gli interessi, gli facesti inaspettatamente spazio nel grembo materno della terra. Il versetto che narra questo passaggio è un monumento levato in tuo onore, che vale tutti gli elogi biblici riservati a tuo fratello: Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero.
Complimenti, Esaù.
Con questo finale a sorpresa tu diventi per noi, uomini del duemila, l’icona luminosa di come sullo stesso terreno, dopo essersi scalciate tra loro, possano pacificamente convivere culture diverse.
Oggi l’umanità sta vivendo i dolori di Rebecca. Dall’Etiopia ai Paesi arabi, dal Sudafrica all’Est europeo, dall’Irlanda all’Estremo Oriente, assistiamo a situazioni in cui un unico grembo deve sopportare scotimenti di civiltà non omogenee tra loro.
Nord e Sud, Est e Ovest, bianchi e neri, protestanti e cattolici, cristiani e musulmani… sono oggi i nuovi soggetti di un gemellaggio rissoso, violento, disumano.
I predicatori vaticinano con coraggio profetico la nascita di convivenze multirazziali, multireligiose, multietniche e multinonsoché. Ma l’utero sembra contrarsi per le doglie dell’agonia più che per l’attesa del parto.
Vuoi sapere il punto più emblematico di questo travaglio planetario? È proprio quella fascia di terra che è stata la tua.
Israeliani e Palestinesi si urtano nel seno della madre. Alle espulsioni in massa di popolazioni tranquille che occupavano da sempre i territori contesi, hanno fatto eco gli agguati di sangue e le ritorsioni disperate di chi è costretto a sopravvivere. All’arroganza del sionismo, che continua a ignorare i diritti nazionali dei Palestinesi, ha fatto riscontro il puntiglio del movimento palestinese che ha finto di ignorare, almeno fino agli anni ‘70, l’identità israeliana. Alle repressioni operate dagli Ebrei, oggi rispondono i sibili nonviolenti dell’Intifada.
Sembra di riudire il lamento di Rebecca, quando i due embrioni le si urtavano nel ventre: Se è così, perché questo? Perché continuare a vivere?
Nonostante questo, però, si avvertono inizi di cose vive, nuove, segnali di distensione, ansie di riconciliazioni definitive, per merito soprattutto di chi, i torti, li ha subìti di più. La svolta che ha preso la storia della tua rivalità con Giacobbe, detto pure Israele, soprattutto per merito tuo (di te spodestato con le arti della più fraudolenta diplomazia) ci infonde coraggio. Perché sembra una parabola culturale carica di speranza e ricca di promesse di pace.
Più che un racconto del passato, insomma, ha tutta l’aria di essere il presagio di un imminente futuro. Dio lo voglia! Comunque, grazie, Esaù. Qua la mano. La mano, non il calcagno.

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