AGONIA DI NOMI

di don Tonino Bello

Carissimo Giacobbe,
il motivo della presente non è tanto quello di chiederti notizie più dettagliate sulla lotta misteriosa che ingaggiasti con Dio, sul guado del fiume Jabbok, quando fosti ferito all’anca.
Quella notte non c’era nessuno, le tue schiere erano già passate all’altra riva, e il “match” si svolse a luci spente, senza clamore di tifosi e senza commenti di cronisti.
Forse è per questo che le poche righe di resoconto riportate dalla Genesi sono così ambigue, che non si capisce bene se il tuo rivale sia stato un angelo, o un uomo, o Dio addirittura.
Si sa solo che fu una lotta libera, estenuante, senza risparmio di colpi, e che a un certo punto, per una mossa scorretta dell’avversario, ti si slogò l’articolazione del femore.
Fu un colpo basso, bisogna riconoscerlo: al limite della squalifica, diremmo oggi. Ma, in fondo, te lo meritavi. Anni prima, non avevi anche tu fatto un plateale sgambetto a tuo fratello Esaù, soffiandogli la primogenitura? Ebbene, quella notte ti si rese pan per focaccia o, se preferisci, pan per lenticchie.
Ma, come dicevo all’inizio, non ti scrivo per risolvere gli enigmi di questa tua singolare vicenda. Oltretutto gli esegeti, sia pure con affanno, appagano abbastanza le richieste della mia curiosità quando affermano che in quest’episodio notturno si nasconde il simbolo di una profonda esperienza religiosa.
Tu, insomma, saresti l’archetipo dell’uomo che combatte con Dio per non lasciarselo sfuggire, e instaura con lui un rapporto dialettico teso alla scoperta della sua intima identità. Saresti il capostipite di quella lunga progenie di creature che non si accontentano di avvinghiare nella lotta le membra sguscianti del Creatore, ma ne cercano l’anima segreta, rantolandogli addosso il respiro della loro fatica e facendogli bruciare sul collo tutto il bisogno insoddisfatto di lui.
Non c’è che dire: la spiegazione di quell’assalto estenuante, inteso come icona dell’agonia mistica dell’uomo nella sua ansia primordiale di vedere Dio faccia a faccia senza morirne, mi convince. In fondo, ogni seria ricerca di Dio non è un’agonia senza morte?
Il motivo vero per il quale ti scrivo è un altro.
E che in questa tua vicenda notturna io scorgo in filigrana non solo l’ansia religiosa degli uomini di tutti i tempi, ma il tormento particolare dell’uomo contemporaneo: quello di voler dare un nome a realtà che gli sfuggono dalle mani.
Sì, anche noi, come te, stiamo vivendo un momento decisivo.
Quella notte tu lasciavi per sempre la tua terra antica e ti addentravi rischiosamente nel territorio controllato dal fratello-nemico. Stavi facendo, cioè, il passo più drammatico della tua vita: entrare in un continente sconosciuto. Passavi il tuo Rubicone, insomma.
Ed ecco densificarsi, proprio sulla frontiera segnata dal fiume, il cumulo delle incertezze simbolizzato dalla tua lotta con Dio. Che, in fondo, fu una lotta per il nome.
Tu chiedesti il nome tutta la notte al tuo rivale misterioso, dicendogli ogni volta che l’atterravi: Come ti chiami? Ma lui sgusciava alla presa delle mani viscide e, prendendo il sopravvento, ti ripeteva: Perché mi chiedi il nome? La nostra storia, caro Giacobbe, ti rassomiglia tanto.
Anche noi stiamo sperimentando l’oscurità del trapasso. Giunti a una frontiera decisiva della storia, affrontiamo il guado che ci introduce nel terzo millennio e, come te, viviamo il dramma del nome.
Le antiche categorie si rimescolano. I vecchi vocaboli non ci bastano più per indicare gli scenari nuovi sulle cui sponde stiamo per approdare. Lo scontro più vero oggi è con l’ineffabile.
Gli schemi concettuali che avevano finora sorretto la nostra comprensione dell’universo si stanno sfaldando, minacciati come sono dall’onda lunga di una realtà inedita. Sensazioni impreviste straripano da tutte le parti, e le parole di un tempo non le contengono più. Le dighe lessicali cedono sotto l’urto di emergenze che irrompono con la furia di un tornado. E noi, a ogni realtà che pure tocchiamo ma che ci slitta dalle mani, continuiamo a chiedere, sotto lo spasimo della lotta, come facesti tu: Qual è il tuo nome?
È proprio vero: la nostra è un’agonia di nomi. È una crisi di vocabolario. I termini non aderiscono più alle cose e scivolano sulla loro pelle. Che significa oggi dire terzo e quarto mondo, visto che primo e secondo si identificano?
Come chiamare le tensioni conflittuali del mondo contemporaneo, dal momento che le categorie di destra e sinistra oggi sono chiaramente svaporate? E non sono forse divenute desuete perfino le recenti formule di Nord e Sud con cui vogliamo tracciare il discrimine tra ricchezza e povertà?
Qual è il nome vero da dare, senza prestare il fianco all’equivoco, a quell’ansia di cieli nuovi e terra nuova, nascosta nell’anima di ogni uomo, visto che la parola progresso si è consumata per indicare mille altri scadentissimi surrogati?
Dobbiamo riconoscere che è davvero una fortuna per noi credenti se possiamo aggrapparci al termine biblico “shalom”. Diversamente, anche la parola pace ci sembrerebbe impari a sostenere il peso di quel bisogno di felicità complessiva sepolto nel cuore del mondo, visto che l’abbiamo
ormai svigorita per indicare solo l’appagamento dei nostri interessi parziali.
Qual è il tuo nome?
Forse è l’interrogativo più drammatico che la nostra epoca sta vivendo, tant’è che ultimamente, perfino per indicare il partito più inquadrato e più definibile della storia, si è dovuti ricorrere a una specie di stratagemma lessicale e, differendo a tempi migliori la scelta di un nome, ci si accontenta di designarlo semplicemente così: “la cosa”.
Non c’è che dire: la nostra, come la tua, è una lotta per il nome. Bisogno di nomi vergini. Non corrotti dall’abuso. Nomi freschi. Appena pronunciati. Capaci di ridestare fremiti e di additare promesse. Di indicare fronti e di scaldare petti.
È per questo che ti scrivo. Per ringraziarti. Poiché nella tua storia di ieri leggo il paradigma delle nostre speranze di oggi. Il suo nome, Dio non te lo rivelò. Però ti benedisse. Perché avevi lottato. E tu ti incamminasti, sia pur zoppicando, verso la terra promessa dove, invece che incontrarti come nemico, il fratello Esaù ti corse incontro con le sue schiere, ti si gettò al collo, e ti baciò.
Grazie, Giacobbe, per questa speranza che ci dai. Perché ci fai capire che la lotta per il nome, che stiamo sostenendo anche noi come te, non può non essere benedetta da Dio. E anche se claudicanti, ci stiamo forse incamminando sulle vie della pace. Nel riconoscimento di tutti gli uomini come nostri fratelli. L’importante, del resto, non è cambiare il nome alle cose. L’importante è cambiare il nome a noi stessi. Non è forse vero che da quella notte tu, il vecchio falsario, uscisti col nome mutato e, invece che Giacobbe, ti chiamasti Israele per sempre?
Grazie, Israele. Perché sulle tracce della tua storia, percepiamo odori di terra promessa. Avvertiamo che la notte sta per finire. E tra poco suonerà pure per noi il gong dell’aurora.

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