7. La consegna della veste bianca

Siamo nella fase post battesimale: la consegna della veste bianca.

Dopo l’immersione (o l’infusione) nell’acqua, c’è il rito, che abbiamo visto la volta scorsa, dell’unzione con il sacro crisma e poi, dopo avere ricevuto la dignità sacerdotale, regale e profetica per mezzo dell’unzione, il bimbo che viene battezzato riceve la consegna di una veste bianca, la veste candida. E’, questo, un rito abbastanza antico che compare piano piano fino ad affermarsi limpidamente nel quarto secolo, dove abbiamo per esempio Ambrogio che ne parla in maniera esplicita; ed è un rito che dobbiamo capire attraverso il suo aspetto materiale, di veste, e il suo aspetto cromatico, la veste bianca. Innanzitutto dobbiamo capire che da questa veste viene una terminologia di cui molta gente spesso non conosce l’origine, quella della domenica dopo Pasqua, domenica che viene detta in albis. Perché si chiama così? Perché di fatto i catecumeni che vengono battezzati nella notte di Pasqua, nella veglia pasquale, ricevono questa veste bianca che devono mantenere nella liturgia. In alcuni luoghi è attestato che addirittura la tenevano tutto il giorno, la tenevano anche nei luoghi di lavoro, dove andavano, per tutta la settimana successiva. La settimana successiva alla Pasqua è concepita come una sola giornata, un solo giorno, infatti la liturgia in quei riti ripete sempre «oggi», «oggi», «oggi» per dire che la Pasqua è ancora in auge, perché è iniziato un giorno escatologico, un giorno che non ha i parametri del nostro tempo, ha parametri diversi, è il giorno dell’eternità, l’ottavo giorno, che dura una settimana; e termina questa lunga celebrazione della Pasqua con la domenica, che è chiamata in albis proprio perché in questa domenica venivano deposte, alla fine, le vesti candide, ed è tradizione, per esempio nella diocesi di Roma, di deporle sulla tomba di un martire per chiedere il dono della stessa fede di un martire. Appunto, dopo questo rito, questo tempo con la veste candida venivano considerati introdotti pienamente nell’assemblea cristiana i neo-battezzati o neofiti. Allora questo essere “in bianco” bisogna capire che significato ha. Prima però dobbiamo capire, ed è la cosa fondamentale, qual è il senso della veste, cos’è il vestito, cos’è nella scrittura e cos’è un pochino nella nostra esperienza antropologica, come mai chi è stato battezzato ed è stato consacrato a questo punto ha bisogno di essere rivestito. Dobbiamo un po’ capire che cos’è il segno della nudità, il segno dell’essere rivestiti, il segno di deporre vecchie vesti e di prendere nuove vesti. Lo vedremo un po’ nella sacra Scrittura e un po’ nella nostra esperienza antropologica.

Come premessa necessaria per arrivare a capire il simbolo della veste nel rito del battesimo bisogna quindi ritornare all’origine del significato all’interno della sacra Scrittura e anche di quello che ha assunto antropologicamente

Senza ombra di dubbio l’abito, la veste è qualcosa che non serve semplicemente per coprirci dal freddo o anche dal caldo. È ben altro, è molto di più. È una funzione che ha un portato simbolico fortissimo, ha una capacità di essere linguaggio addirittura. In effetti noi viviamo con un corpo. Il nostro corpo e la nostra anima sono la nostra realtà completa. Non c’è anima separata dal corpo. Noi siamo di fatto una unità e il nostro corpo lo presentiamo vestito, lo presentiamo con una veste. E questa veste, ripeto, è linguaggio.

Che cos’è l’abito nella nostra esperienza? Di fatto è come un alter ego, come una forma di presentare il nostro io. C’è l’abito di lutto, c’è l’abito della festa, c’è l’abito ordinario, c’è l’abito straordinario. Il linguaggio dell’abito è una prima esplicitazione di noi stessi, è una visibilità, quello che appunto diventa il nostro linguaggio odierno, il look, il come appariamo agli altri. Il nostro abito è sottoposto a esame dagli altri. Noi esaminiamo l’abito altrui e attraverso questo noi capiamo chi sono, che cosa ci vogliono dire. C’è l’abito opportuno e l’abito inopportuno. Andare con un abito feriale, ordinario a una festa di nozze, come anche evangelicamente abbiamo attestato, è un atto di mancanza di rispetto, un atto incongruente. Si può stare vestiti troppo bene in un luogo dove si mettono in imbarazzo gli altri, nell’essere vestiti troppo bene. Allora che cos’è questa storia dell’abito. L’abito non è una realtà statica, non abbiamo sempre lo stesso abito. L’abito si cambia e dev’essere adeguato alla situazione; pure dice noi chi siamo di fronte a quella situazione. Basti pensare alle uniformi che tanto piacciono agli uomini che sono tanto affezionati a queste cose, questo uniformarsi, avere lo stesso abito, che può essere un linguaggio di comunione, ma può essere anche un linguaggio di essere pedissequamente schiavi di uno schema – l’uniforme – e quindi presentarsi con una visibilità pre-determinata che prescinde dalla mia vera personalità. Chi sono io? Il mio abito lo dice. Se io non curo il mio abito, se sono trasandato o se ho un abito sporco, o un modo sudicio di presentarmi sto parlando un linguaggio: io sto dicendo “problematica” e sto dicendo anche poca cura di me stesso e verso gli altri. Un’affettazione eccessiva con l’abito parla di una personalità narcisistica o giù di lì. L’abito quindi, alla fine, è la nostra relazionalità con gli altri, alla fine è il nostro ruolo, il ruolo che scegliamo: un ruolo stereotipato, un ruolo originale, un ruolo trasparente, un ruolo che vuole apparire troppo, ecco. Una delle cose che noi vediamo nella scrittura è che la tematica dell’abito è fondamentale nel racconto dell’identificazione dell’uomo. Nella storia principale delle coordinate che noi riceviamo dalla Bibbia sull’antropologia, ecco, noi abbiamo la storia di Adamo ed Eva. Tutto il gioco del loro vestirsi o sentirsi nudi è ciò che esplicita la loro condizione di salvezza o di salvezza perduta. Parte la storia con due persone che non hanno bisogno di inventare questo alter ego, questo spessore, questa cortina fra me e l’altro che diventa un pochino l’abito. Non ce n’è bisogno. La verità nuda e cruda è buona per se stessa. Non c’è vergogna nel proprio essere. Questa storia è una storia che ha un senso antecedente alla nostra realtà. Quando la Bibbia attraverso il libro della Genesi ci racconta del peccato originale non vuole tanto indicarci come eravamo prima, anche se pure quello è importante, vuole spiegarci come siamo oggi, come siamo arrivati ad essere come siamo. La storia della perdita della fiducia in Dio diventa il bisogno di un abito, diventa il bisogno di una cortina, di qualcosa che mi nasconda perché io non ho più un ego lineare, non ho più un essere che può presentarsi all’altro direttamente; è pericoloso mostrarmi all’altro direttamente. Allora da questo punto parte il senso dell’abito e iniziamo a capire un po’ meglio qual è la nostra crisi con il look, crisi con l’apparenza che diventa il nostro gestire l’abito.

Quindi la storia della perdita della fiducia in Dio, – qui siamo nel giardino dell’eden, quindi l’episodio di Adamo ed Eva – diventa il bisogno di un abito, di una cortina. Adamo ed Eva percepiscono la loro nudità e sentono il bisogno di qualcosa che li nasconda. Questo riporta anche ad una percezione di un ego che non è più lineare. Quindi il peccato originale è strettamente connesso alla crisi dell’abito.

Appunto in loro noi vediamo quello che poi diventa la nostra esperienza, spesso non riflessa, non consapevole. Dal momento in cui di Dio si può dubitare, dal momento in cui Dio non è certo che sia buono, ecco che io sono solo, di fondo. Io mi trovo a dover giustificare il mio essere, perché la sua origine è confusa, la sua origine è incerta. Ne deriva che io ho bisogno di coprirmi, mi vergogno della mia nudità. Questa vergogna della nudità, che è percezione della propria fragilità, è in realtà una condizione nativa in cui siamo tutti. È ciò che ci troviamo ad avere di noi stessi, del nostro essere. Dobbiamo capire chi siamo, dobbiamo assumere un ruolo. Ed ecco che si vede un atto in Adamo ed Eva che è quello di intrecciare foglie di fico; sentono il passo di Dio nel giardino e si nascondono. Dio parla loro a distanza. Loro hanno un dialogo da dietro una coltre. Ma com’è allora? Queste foglie di fico non li avevano coperti? Non erano in condizione di essere visibili perché coperti da queste foglie di fico? No. Ecco che dietro questo simbolo delle foglie di fico ci sta tutto il nostro intrecciare ruoli, il nostro cercare di essere qualcuno, il nostro cercare di renderci presentabili, renderci gradevoli allo sguardo altrui e, in fondo, mai sentirci veramente, fino in fondo, tali. La nostra condizione è una condizione di continuo intrecciare, intessere e intessere abiti su abiti. Abbiamo l’abito dell’infanzia, l’abito delle rivalità dei ruoli, del figlio, della sorella, del fratello, del padre, e di tutti quelli che sono i ruoli intrafamiliari. Questi abiti sono insufficienti per giustificare, per spiegare la nostra vita perchè questo abito non basta. E allora poi iniziano gli abiti nella società, nelle relazioni, prima infantili poi adulte. Ed ecco che le persone cercano, devono cercare, tutti dobbiamo cercare chi siamo e lo diciamo attraverso quello di cui ci vestiamo, la veste che prendiamo. Ecco che iniziamo a capire. Primo) il dono di Dio, nella Genesi, che fa questo regalo ad Adamo ed Eva: donare loro un abito da lui intessuto, un abito nuovo. Ecco che loro potranno uscire allo scoperto, nella vita, perché Dio darà loro un abito. In questo segno che resta lì un po’ latente, che resta lì un po’ compreso un po’ incompreso, c’è questa storia: l’abito che mi intreccio da solo, l’abito che mi dona Dio. Ed ecco che noi andiamo avanti e scopriamo che l’abito diventa sempre più un pezzo della propria personalità. È interessantissimo come, nella Scrittura, il mantello di un profeta diventa segno della sua missione; e quando Elia, nel Primo libro dei Re al capitolo diciannovesimo, elegge come suo successore Eliseo, semplicemente fa un atto: gli butta sulle spalle il proprio mantello di profeta e questo è esplicitamente la chiamata a vivere la sua stessa vita, portare il suo abito.

Ecco che c’è tutta una storia nella Genesi che si legge attraverso la filigrana dell’abito. Giuseppe, figlio di Giacobbe, a cui viene strappata la veste lunga che il padre gli aveva fatto per affetto, la veste colorata e bella che lui portava. Questa veste gli viene strappata, lui viene denudato e poi svenduto. E poi ancora una volta arrivato in Egitto, dalla calunnia di una donna maliziosa, lui viene svestito, gli viene strappato l’abito. E allora il buon Giuseppe si trova accusato perché denudato fino a che arriverà a diventare dignitario di corte e ricevere un abito e una veste dal faraone. Attraverso questo salire e scendere dell’abito noi piano piano stiamo iniziando a capire ciò che vedremo in Gesù Cristo, il quale sarà spogliato delle sue vesti e risorgerà invece con il segno che aveva già annunziato nel segno della Trasfigurazione: una veste candida, una veste luminosa.

In parole semplici, noi cerchiamo costantemente la nostra veste. L’uomo sta chiedendosi continuamente chi è, cosa sta facendo, gli altri cosa pensano di lui. È una tragedia latente quella di non essere riconosciuti, di non essere accettati, di non essere importanti, di non contare nulla. Nel battesimo viene consegnata, a chi riceve la grazia della vita di figlio di Dio, una veste bianca. Questa veste è un ruolo. Questa veste è la veste donata da Dio, non è una veste scelta dall’uomo. È antica eco di quel dono fatto ad Adamo ed Eva dopo il peccato, perché dopo il peccato Dio ha qualcosa da fare con noi. Il nostro peccato non è l’ultima parola. Dio che ci guarda come Giacobbe guardava Giuseppe, ci vede belli e ci vuole dare una veste bella, una veste nuziale, la veste della luce. Lui che, come dice il salmo 104, è avvolto di luce come di un manto, ci vuole dare la sua propria veste. Ecco che i grotteschi farisei che hanno vesti con frange lunghissime, che amano passeggiare in lunghe vesti ed essere guardati da tutti, rappresentano tutte le vesti fasulle che noi ci mettiamo addosso; sono un po’ l’immagine di qualcosa da cui dobbiamo uscire. Infatti la veste candida che riceve il battezzato è una veste che riceve perché lui ne ha abbandonata un’altra. Dobbiamo parlare un pochino del vestire e svestire, del prendere una nuova veste e dell’abbandonare un’antica veste.

Vestire un nuovo abito implica cambiarlo, quindi lasciarne uno che si indossava precedentemente. Qual è il significato simbolico e profondo di questo gesto?

Cambiare ruolo, cambiare posizione nella vita, cambiare la nostra relazione con gli altri. Questa veste bianca che riceviamo, che riecheggia San Paolo che ci invita a rivestire l’uomo nuovo, nella Lettera ai Galati ci dice ancora: «quanti siete stati battezzati vi siete rivestiti di Cristo». Ecco: cosa vuol dire essersi rivestiti di Cristo? Cristo che nella Trasfigurazione, come abbiamo detto, appare luminoso, è colui che si mostra agli altri nella risurrezione secondo la sua vera natura. Ecco che pure noi abbandoniamo la nostra natura di figli di Adamo, condannati a ripercorrere le sue stesse orme, e assumiamo la nuova natura di fratelli di Cristo e di figli di Dio, finalmente nelle condizioni di poter camminare per strade nuove e avere ruoli nuovi. È molto interessante, un po’ per spiegare tutto questo segno della veste, l’ultima parola che Gesù dice a Pietro, nel Vangelo di Giovanni. Dopo che Giovanni ci ha raccontato della triplice richiesta di amore da parte di Cristo a Pietro, il quale ha ricordato, attraverso questa triplice richiesta: «mi ami tu?» che lui ha rinnegato tre volte Gesù presso una brace, così come stanno in quel momento, a questo punto, quando lui è entrato in quella tristezza che è conseguente al ricordo ormai addolorato e pentito di un tradimento vissuto, a questo punto Gesù gli dice: «quando eri giovane ti vestiti come sembrava a te e andavi dove volevi, ma quando sarai adulto un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». Questa è la condizione: dall’uomo infantile che arriva alla maturità, alla pienezza della maturità in Cristo. Smettere di scegliersi il vestito e iniziare ad accettare il vestito che Dio ci dà, smettere di vivere di nostro uzzolo, come vulcani nevrastenici, che dobbiamo fare le cose come ci piglia, come ci prende la piega della testa e iniziare un po’ ad accettare, indossare la veste di una missione. C’è chi vive facendo la propria volontà e c’è chi ha capito che la vita è una missione, che è chiamato su questa terra a fare cose diverse, a fare cose nuove. Ecco chi ha indossato il ruolo, la veste è di fronte alla vita, come chi, finalmente è figlio della luce.

Il rito dice al bimbo: «sei diventato nuova creatura e ti sei rivestito di Cristo. Questa veste bianca sia segno della tua nuova dignità. Aiutato dalle parole e dall’esempio dei tuoi cari portala senza macchia per la vita eterna». Concepire la nostra dignità. La veste che Dio ci dà finalmente ci fa capire chi siamo: non siamo persone da poco, non siamo cose secondarie, non possiamo trattarci se non da cose importanti, pieni di nobiltà, figli di Dio siamo chiamati ad agire, a vestire, ad avere abitudini –habitus belle, luminose. C’è chi parla da figlio di Dio, c’è chi agisce da figlio di Dio, c’è chi guarda da figlio di Dio c’è chi ascolta da figlio di Dio. C’è chi ha deposto l’abito vecchio, dell’infantile, non va più dove vuole lui, ma va obbedendo a un piano, il piano di Dio che lui sta compiendo. E’ come se la nostra vita diventasse uno spartito meraviglioso da eseguire, dove la musica non la improvviso fischiettando a casaccio, ma finalmente ho un meraviglioso pezzo da eseguire, una missione da compiere. Il mio abito rappresenta la mia personalità rinnovata, rappresenta la mia identità finalmente luminosa. Rende esteriore ciò che ho interiormente. Non ho più vergogna, ho vinto la vergogna perché sono stato perdonato. Ho vinto il disprezzo di me e l’imbarazzo di fronte a me stesso e di fronte agli altri perché so di essere figlio di Dio e so che Dio mi tiene per prezioso e non mi molla, e non mi lascia.

La veste candida rappresenta la pienezza della serenità con cui uno si sente a proprio agio nella vita perché ha sempre la veste giusta, la veste della sua missione, la veste della luce che Dio gli ha donato, gli ha messo nell’anima e questa traspare. C’è chi veste in maniera semplice, ma è sempre elegante. C’è chi veste in maniera ricercata, ma è sempre triviale. È un problema di cuore, è un problema di realtà interiore. Alla fin fine il vestito non è altro che un linguaggio che noi sappiamo o non sappiamo emettere. La veste candida battesimale ci insegna il linguaggio giusto, il linguaggio della luce, il linguaggio della gloria di Dio creduta, accolta, coccolata dentro di sé come la propria consolazione.

Don Fabio Rosini

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