5. Rinuncia a Satana e professione di fede
Quest’altra tappa del rito vede per protagonisti i genitori del bimbo.
Senza dubbio, in realtà, tutto il rito vede protagonisti i genitori. Certamente il bambino riceve dei segni, ma i genitori sono i veri protagonisti sotto il punto di vista sostanziale del discorso. In effetti, non abbiamo mai speso un po’ di tempo per parlare dell’urgenza della consapevolezza dei genitori e del fatto che tutto il rito del battesimo dei bambini è centrato un po’ su di loro; sono loro che parlano, dicono, fanno, scelgono, prendono impegni. Quello che oggi molto spesso vien detto è che il battesimo dei bambini è una cosa discutibile perché toglierebbe libertà di scelta. Oggi come oggi, per esempio, capita spesso di accogliere persone che non sono state battezzate da una nuova generazione di genitori che anni fa hanno deciso di “lasciar scegliere” ai loro figli la realtà del battesimo, se, appunto, entrare o meno nella vita cristiana e dare quindi questa opportunità. Ecco, questo discorso è un pochino discutibile. Dire che il battesimo dei bambini è una violenza è non capire che cos’è il battesimo, non sapere esattamente di che si sta parlando. E questo per una serie di motivi. Ne dico alcuni, non pretendo di fare un discorso esaustivo, però noi adesso, appunto nella nostra spiegazione del rito del battesimo dei bambini arriviamo a chiarire che, dal momento della rinunzia a Satana e della corrispettiva professione di fede da parte dei genitori, questi prendono l’impegno di crescere nella fede il bambino, professano quella fede che devono avere per dare il battesimo. Allora, il punto è che dare il battesimo ai bambini non impone loro nient’altro che un’opportunità, cioè gli viene aperta una porta, gli viene data una grazia che però loro sono liberissimi di rifiutare quando saranno grandi. In effetti io nella mia vita non ho mai visto un atto pavloviano battesimale, cioè non ho mai visto nessuno che si comportasse in una maniera diversa perché ha un riflesso condizionato dal rito del battesimo, no. Il battesimo offre un’opportunità e si chiede, da parte della Chiesa, ai genitori la professione di fede proprio perché questa opportunità è comunque affidata alla gestione dei genitori.
Forse questo discorso si spiega meglio se facciamo l’esempio più semplice. Cos’è il battesimo? Fra le altre cose è come un seme. Un seme ha la sua potenzialità che solamente nel contesto, nella terra, in un contesto di sufficiente foraggiamento idrico e quant’altro si sviluppa e diventa una pianta. Ma se un seme lo lasciamo in un posto non idoneo, resta lì. Resta in potenza, ma non in atto. Il battesimo è un’opportunità che viene offerta al bambino; se vorrà essere cristiano potrà essere cristiano, da una parte. D’altro canto, assolutamente non si può dare il battesimo senza qualcuno che annaffierà, pianterà questo seme. E in effetti viene appunto chiesto ai genitori di professare la fede, perché è assolutamente necessario che questo battesimo sia affidato a qualcuno che se ne occupi. In realtà, sin dall’inizio, noi vediamo che i genitori scelgono il nome, prendono l’impegno di crescere nella fede questa creatura, quindi hanno un ruolo definitivo sulla vita del bambino. E se siamo onesti dobbiamo riconoscere che essi imporranno molte cose. I genitori impongono molte cose ai figli e lo devono fare. Impongono l’educazione, impongono le abitudini igieniche, impongono la cultura, impongono lo sport, impongono le lezioni di musica. Questi bambini che certe volte sono stressati a otto anni dalla quantità di cose che devono fare che hanno quasi bisogno dello psicanalista. E peraltro, uno che cosa sceglie per i propri figli? Il meglio per loro, cioè di dar loro tutto ciò che di buono c’è per loro. Dei genitori cristiani offrono al proprio bimbo, alla propria bimba la cosa più importante: l’incontro con Dio, il senso profondo della vita, la chiamata alla vita cristiana, che è la chiamata a una vita strepitosa, straordinaria, il poter dar loro una via per imparare ad amare come ha amato Cristo. Questo lo devono fare se lo sentono importante; per questo è già nel momento del matrimonio che, fra le tre domande del rito del matrimonio, gli sposi, se sono sposi cristiani, prendono l’impegno di crescere nella fede i propri figli. Questo è proprio nel rito del matrimonio come condizione di verifica di una chiamata sponsale autentica che implica il desiderio della fecondità, il desiderio di avere figli e il desiderio di crescerli nella fede, altrimenti non si capisce perché questi si sposino in Chiesa, non si capisce perché questa gente ritenga importante vivere la vita matrimoniale sotto l’egida di un sacramento. Se sono cristiani vorranno che anche i loro figli abbiano l’opportunità di essere cristiani. Il battesimo non impone niente. Se uno queste cose le vuole rifiutare, le rifiuta tranquillamente. Allora, prima di entrare nello specifico della rinunzia a Satana ci deve restar chiaro che i genitori a questo punto professano la fede perché sono loro gli attori del battesimo che stanno offrendo al proprio figlio e che tutto questo parla della natura dei genitori, che è la natura di figli di Dio, che vuol essere trasmessa anche ai loro figli.
Dopo questa premessa necessaria nella quale abbiamo spiegato l’opportunità che viene data ai bambini da parte dei genitori facendoli battezzare, entriamo più nello specifico dell’argomento di questo incontro. Perché dev’esserci la rinuncia a Satana da parte dei genitori?
Ecco, questo è proprio importante. Noi logicamente, nel momento in cui vediamo tutto il rito del battesimo dobbiamo sempre ricordare l’antica matrice di tutto questo rituale che portiamo avanti. Mentre i genitori vivono praticamente in maniera concentrata tutta la loro presa di impegno e la loro offerta ai loro figli del dono della fede, del dono della vita cristiana, in realtà, sotto questi riti, c’è tutta l’antica iniziazione cristiana, il catecumenato che, ancora oggi, è la meravigliosa via in cui cammina un uomo che, dalla lontananza da Dio, arriva alla vita battesimale, al dono del battesimo, alla confermazione e alla eucaristia, che sono i sacramenti dell’iniziazione cristiana. Ecco, noi capiamo che dietro questi riti che abbiamo visto finora c’è un percorso. Bisogna arrivare a ciò che è immediatamente precedente al dono del battesimo. In effetti questo è l’ultimo rito proprio prima che si chieda ai genitori di battezzare i figli e finalmente fare il rito dell’immersione o dell’aspersione, secondo le circostanze. L’ultimo atto infatti che veniva fatto nell’antico battesimo, e che viene fatto nel battesimo degli adulti oggi come oggi, quando una persona sta proprio per vivere l’immersione o l’aspersione, è la rinuncia al maligno e la professione di fede. Ed è abbastanza interessante per capire quello che dobbiamo fare con i bambini o con gli adulti oggi, notare come la Chiesa, pian piano, liturgicamente, è andata formando, plasmando questo rito, questo momento, perché mentre adesso è una domanda e una risposta, anticamente -per esempio noi lo abbiamo attestato nei testi di Cirillo di Gerusalemme, come in altri testi dei padri della Chiesa del terzo, quarto e quinto secolo- il rito si svolgeva fuori; è un movimento, c’è un atto che era implicato in questo rito. Quello che oggi è un dialogo anticamente era un momento dinamico, era un atto. Fuori del battistero si svolgeva questo rito: il catecumeno, ormai nello stato di elezione -era già arrivato ad essere un eletto- stava per essere battezzato e, rivolto ad occidente, puntava la mano e rinunciava a Satana e alle sue seduzioni come se Satana fosse presente, dice Cirillo di Gerusalemme. Poi, rivolto a oriente, si sentiva rivolgere dal vescovo la triplice domanda: «Credi in Dio Padre, in Dio Figlio e in Dio Spirito Santo?» e rispondeva con un triplice sì, per poi (o contemporaneamente) essere immerso nel fonte battesimale. Per cui, fuori della Chiesa e contro qualcuno considerato come presente, qualcuno che era lì, indicando, puntando il dito verso occidente. Vediamo di capire meglio. Non qualcosa di vago e indistinto, un male indefinito, ma contro Satana, contro un’identità precisa contro cui puntare il dito; verso occidente veniva fatto questo rito, questo atto. Perché puntavano il dito verso occidente? Perché lì è dove il sole muore, dove la luce muore, dove la notte inizia, il luogo della confusione, lì dove manca luce, un luogo simbolico, il luogo della fine della chiarezza, il luogo della morte della giornata. E la persona cosa faceva? Puntava il dito, quindi indicava qualcuno di preciso, emetteva la sua rinuncia, rinuncia che abbiamo riprodotto, più o meno letteralmente, nell’attuale rito, ancora adesso; poi, dopo aver puntato il dito verso occidente, si volgeva verso oriente e andava verso il battistero perché lui, nel movimento del battesimo, sarebbe riemerso dall’acqua guardando verso oriente. Oriente è il luogo dove la luce sorge. Il sole che sorge dall’alto è Gesù Cristo, secondo il cantico di Zaccaria nel Vangelo di Luca, è il luogo della luce, è il luogo della vita. È tutto simbolico, non è peggio l’occidente e meglio l’oriente. È simbolico, è esistenziale. Era un cammino dall’occidente all’oriente, dalla morte alla vita, dalla notte alla luce, era un cammino verso la chiarezza, verso la luminosità. Dopo questo atto dell’aver puntato il dito ci si volgeva. Questo atto di rotazione è un po’ il cuore del discorso. Ci si volgeva per andare a professare la fede nella Chiesa passando dal luogo non-santo al luogo santo, diciamo così, andando verso oriente; professare la fede e quindi essere battezzati. Credere significa così cambiare fisicamente direzione, significa conversione, «volgersi verso colui in cui non si è ancora creduto» (Clemente Aless., Stromata II, 1,2). Anticamente la professione di fede era proprio all’interno del rito dell’immersione. Il catecumeno entrava nell’acqua e gli veniva chiesto: «credi in Dio Padre onnipotente creatore del cielo e della terra?» Lui diceva: «credo». E allora veniva immerso per la prima volta. «Credi nel Signore Gesù Cristo, unico figlio di Dio il quale nacque da Maria vergine, patì sotto Ponzio Pilato, e via dicendo». E diceva: «credo». E allora veniva immerso per la seconda volta. «Credi nello Spirito Santo, la Santa Chiesa Cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la resurrezione della carne e la vita eterna?». «Credo». E veniva immerso per la terza volta. Per cui la professione di fede e il battesimo coincidevano. Poi sono stati leggermente separati per vivere il nocciolo di entrambi in maniera più limpida, ma la professione di fede viene preceduta da questo atto di rinuncia. Rinunciare a qualcuno che non è un’idea vaga, è qualcuno di preciso. E rinunciare alle sue opere, alle sue pompe, questo è l’antico nome, cioè al suo spettacolo, al suo gonfiarsi e al suo culto; noi oggi le definiamo le sue opere e seduzioni, ecco. È importante cogliere questo movimento di rotazione dall’occidente all’oriente, cambiare strada, rinunciare a qualcosa e professare un’altra cosa.
Quello che anticamente era un gesto concreto con il quale ci si voltava fisicamente da occidente verso oriente, quindi dalla tenebra verso la luce oggi, nella liturgia del rito del battesimo, è la rinuncia a Satana. Vediamo allora più nello specifico questa prima parte.
Il punto che noi dobbiamo enucleare è proprio questo atto: la parola rinunciare. Rinunciare vuol dire “re-nuntiare”, dal latino, αποτάσσω, dal greco, “abbandonare”; αρνέομαι, in greco, più precisamente che riguarda proprio la rinuncia, vuol dire in se stesso “non annunziare più qualcosa che si è annunziato”, “non professare più qualcosa che si è professato”. In greco vuol dire rompere una solidarietà, negare un legame. È un rifiuto. La parola “rifiuto” è molto interessante, vuol dire annusare qualcosa e poi scansarla perché puzza. Rifiutare: è qualcosa che prima si trovava buono e che adesso si trova negativo, si trova sgradevole, nefasto. È l’atto di rinnegare il male, è l’atto di rompere un’alleanza con le cose che ci fanno male. Questo vuol dire che, in sé, proprio come atto, plasticamente -prima di identificare l’oggetto della rinuncia- è assolutamente necessario, per assumere la condizione della fede, abbandonare il male. Ma non solo abbandonare il male per sottrazione fisica allo spazio del male, ma odiarlo proprio, rinunciare, rifiutarlo, averne disgusto. Nessuno lascia veramente un vizio finché in fondo non lo odia. Nessuno lascia le strade tortuose della propria tenebra se non ne ha percepito la distruttività e non ha vera ripulsa verso ciò che gli ha fatto del male. Si tratta di rompere un patto, riconoscere di aver avuto un patto con il male, di aver lasciato entrare nella propria vita cose sballate, storte, dannose, futili e sperperanti del nostro bene e non aver compiuto una rottura; e così va succedendo che, sai com’è, a un dato momento, uno delle cose se ne disinteressa. No! Dev’essere una rottura chiara, netta. Qui si tratta di dare un colpo serio. In questo momento, nell’atto della rinuncia, si vive ciò che si vivrà poi nel sacramento della riconciliazione, al momento della confessione del peccato. È molto importante questo termine: confessare il peccato. Ma confessare si confessa la fede e allora confessare il peccato è denunciare il peccato come morte, lo si confessa come errore, come bruttezza, come non-vita. Per questo c’è il dichiarare esplicitamente i propri peccati. Molta gente non capisce perché si debba dire a un prete il proprio male. Ma è molto semplice: bisogna fare un atto oggettivo, bisogna farlo di fronte a chi rappresenta Dio e la Chiesa e bisogna chiamare per nome i propri peccati. Questo nel sacramento della riconciliazione, nel segreto del confessionale, per carità di Dio, nella confessione auricolare. Però bisogna dirlo, bisogna sputare il rospo, diciamo così.
Ecco qui, nel momento del battesimo, globalmente, si rinunzia al padre del male e a tutte le sue opere e seduzioni: שָׂטָן. Chi è שָׂטָן? Io non sono un esorcista, sono un normalissimo sacerdote, e non sono bravo nello spiegare questo che, però, per il mio combattimento spirituale e per il combattimento spirituale di tante persone che devo seguire nella porzione del popolo di Dio che mi è affidata, devo conoscere; il combattimento contro l’angelo del male. שָׂטָן in ebraico vuol dire “avvocato dell’accusa”, è l’accusatore, è un angelo nero, il ministro del dubbio, colui che insidia l’uomo accusandolo e ponendogli in dubbio l’amore di Dio e l’amore del prossimo. È un dito puntato contro noi stessi che assai bene in realtà conosciamo tutti quanti. Un’istanza che ci si impone, che è contro di noi, eppure lavora misteriosamente nella nostra esistenza e ci dice il falso su noi stessi, sul prossimo e su Dio. Il suo strumento di lavoro è la paura, e la nostra paura diventa la spina dorsale della nostra bruttezza e ci fa fare cose, opere, che sono i peccati; e ha strutture di convinzione nei nostri confronti che sono le seduzioni. Si serve della mentalità mediocre del mondo circostante per invitarci a rimanere incastrati nella paura. Bisogna rinunciare a queste istanze. Non bisogna semplicemente dichiararle sbagliate, bisogna rinunciarvi, bisogna odiarle e nessuno lo fa se non le odia veramente. Se uno non odia veramente il male non se ne libera. «Odiate il male voi che amate il Signore» dice un salmo. Finché uno non odia il vizio che ha distrutto la propria vita non se ne libera, ci tornerà a braccetto. Bisogna rompere un patto: questo vuol dire che c’è qualcosa di noi che è alleato con il male, che si è abituato a mangiare questa spazzatura che il male ci fa mangiare. Deve arrivare il momento in cui si deve assaggiare qualcosa di buono e si deve dire «basta, non posso più continuare a mangiare così, come mangio normalmente»; dev’essere qualcuno che deve sentire l’aria pesante, stantia, nauseabonda, il tanfo del male e desiderare di aprire la finestra e farlo uscire. Questo atto indica una recisione netta. Noi abbiamo questo stile sale e pepe, sempre misto, sempre ambiguo, mai fino in fondo, non tagliare mai. La cosa che io dico sempre quando è il momento di spiegare la rinunzia al maligno è: pensa a un chirurgo che non ti tolga per intero un tumore e te ne lasci un pezzo dentro. Così facciamo io e te quando non rinunciamo veramente al male.
E siamo alla seconda parte di questo passaggio del rito del battesimo. Dopo la rinuncia a Satana ai genitori viene chiesta la professione di fede.
Beh, bisogna pensare che la professione di fede era lo spazio più lungo preso dal catecumenato, quando il vescovo spiegava ai catecumeni gli articoli della fede, la nostra bella fede cristiana. In sé dobbiamo precisare sempre un pò, alle persone che arrivano a dare il battesimo ai loro bambini, che quando chiediamo loro: «credete in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra?» e loro rispondono: «credo»; «credete in Gesù Cristo suo unico Figlio, nostro Signore che nacque da Maria vergine, morì e fu sepolto, risuscitato dai morti e siede alla destra del Padre?» e loro rispondono: «credo»; «credete nello Spirito Santo, la Santa Chiesa Cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati e la resurrezione della carne e la vita eterna?» e rispondono: «credo» ecco, normalmente lo si intende così -è un problema fondamentale sulla fede: «credo, sì credo che c’è Dio, credo in Gesù Cristo, sì, certamente, perché no, che male mi fa, cioè non mi aggiunge niente, non mi toglie niente, credo. Credo che c’è Dio». Ma questo lo credono tutti. Che Dio ci sia sono in pochi che non lo credono. Anche molti atei, poi, alla fine, credono che un Dio c’è. Credere in Dio nel senso di riconoscerne l’esistenza non è la fede di cui stiamo parlando. Credere, in ebraico si esprime col verbo אמן, da cui derivano la parola אָמֵן, e il termine fede che è אֱמוּנָה e che vuol dire “appoggiarsi”, “abbandonarsi su qualcosa”, “fare perno su qualcosa”. Allora il problema è: credere che Dio è nostro Padre vuol dire fare un atto concreto, scegliere nella vita secondo questo fatto. Credere che Dio è nostro Padre, che il Signore Gesù Cristo è il nostro Signore vuol dire disobbedire agli altri signori della nostra vita e appoggiarsi nel Signore Gesù Cristo, appoggiarsi nello Spirito Santo, credere a tutte le opere di Dio, la Chiesa, che è l’opera di Dio meravigliosa, credere che Dio nella Chiesa ci salvi. Allora il problema non è credere che Dio c’è, ma fidarsi di Dio, fare atti di fede. La domanda è: quand’è l’ultima volta che ti sei fidato di Dio? La domanda è: quand’è l’ultima volta che ti sei sbilanciato dalla parte di Dio, che hai rischiato un po’ con Lui? Questo vuol dire credere, questa è la professione di fede. E infatti, parlando dei bambini: avranno la fede, avranno la fede della Chiesa se vedranno nei genitori non chiacchiere, ma atti di fede e atti di rinuncia al maligno; se vedranno che i genitori sanno dire di no al male e sanno abbandonarsi alla volontà di Dio obbedendo a Dio, fidandosi di Lui. I genitori sono chiamati alla loro propria fede per poter dare il battesimo ai bambini. È questo il problema. È abbastanza secondario il problema del perché dare il battesimo, perché non dare il battesimo. Quando una persona vive la rinunzia al male e l’obbedienza a Dio lo sa benissimo perché dare il battesimo ai bambini e come amministrare e gestire tutto ciò.
Don Fabio Rosini