3. L’unzione pre-battesimale
Oggi parleremo del terzo segno che contraddistingue questo rito.
Nel rito in realtà i segni sono molti e noi non li vediamo tutti. Nel rito classico del battesimo di un bambino, dopo l’accoglienza nella Chiesa, che è contraddistinta dall’imposizione del nome, che abbiamo visto nel primo incontro, e dall’imposizione del segno della croce, nella seconda fase, segue la liturgia della parola e, prima dei riti immediatamente battesimali che vengono aperti dalla benedizione dell’acqua nel fonte battesimale, c’è un rito di esorcismo, in cui c’è una preghiera di esorcismo sul bambino, e il segno che viene dato è proprio il segno di una unzione. Il sacerdote o il battezzante unge sul torace il bambino dicendo la formula: «ti ungo con l’olio, segno di salvezza. Ti fortifichi con la sua potenza Cristo Salvatore che vive e regna nei secoli dei secoli». Ecco, noi oggi ci fermiamo un pochino su questo segno un po’ curioso. Dei vari segni del battesimo forse è il meno esplicito, quello che non si coglie subito quanto al suo portato di significato.
Ecco, abbiamo a che fare con l’olio. Allora dobbiamo subito far capire che il battesimo implica due unzioni. Se andiamo un pochino a vedere infatti le fonti antiche, i racconti patristici, quella che è un po’ tutta la tradizione primitiva della Chiesa, qui c’è un pochino di ambiguità. Si capisce, non si capisce, l’olio è prima, l’olio è dopo, l’unzione è una, sono molte… Ecco, noi poi lo abbiamo codificato in una linearità che è quella della nostra unzione pre-battesimale, con l’olio cosiddetto dei catecumeni, e con una unzione post-battesimale con l’olio del crisma che è lo stesso del sacramento della confermazione. Allora noi dobbiamo capire un pochino questo segno qui perché è un segno che ha uno spessore, un peso specifico piuttosto notevole e interessante.
Quello che noi vediamo è che viene coinvolto un elemento, l’elemento dell’olio. L’olio ha un’ampiezza di significati, ha un’ampiezza di simbolismi: l’olio è alimento, l’olio è anche combustibile, l’olio è unguento, l’olio è profumo, l’olio è anche medicinale, e noi un pochino scopriremo qual è lo specifico di questa unzione pre-battesimale.
Abbiamo accennato al fatto che ci sono due unzioni nel rito del battesimo. Perché sono due?
Appunto perché il cristiano che sta nascendo ha bisogno di passare da una fase a un’altra. Prima di entrare nel fonte battesimale deve vivere una fase. Una volta uscito dal fonte battesimale ne vive un’altra. Dopo il battesimo, dopo l’immersione, infatti l’olio ha un nome ben preciso: si chiama μύρον cioè è profumo, l’olio è un misto di aromi che vengono appunto tenuti insieme da quest’olio, ed è un cosmetico, forza di conferire una bellezza, un’aura di onore, di nobiltà.
L’olio che viene usato prima, invece, così com’è detto negli antichi testi, per esempio da Giovanni Crisostomo, nel IV secolo, è sempre collegato ad un atto di esorcismo e infatti così è rimasto nella nostra tradizione; e non si parla mai di μύρον, cioè di olio in quanto unguento, ma si parla di έλαιον, cioè proprio di olio, olio in quanto grasso, la sua forza di essere, appunto, costituito da un liquido che è lubrificante, e viene collegato all’allontanamento dallo spirito cattivo. Ippolito, nel secondo secolo d.C. parla di tre unzioni pre-battesimali, con una formula, ripetuta tre volte, che suona così: «ogni spirito cattivo si allontani da te». Allora è proprio un esorcismo. Cirillo di Gerusalemme, nel quarto secolo, parla di un’unzione che addirittura viene fatta su tutto il corpo per poter essere battezzati; cioè si entrava nel battesimo unti, si entrava nel battesimo -posto che il battesimo veniva fatto per immersione, e posto che si veniva battezzati completamente spogliati- col corpo completamente unto. Di ciò è appunto eco questo fatto che il bambino viene unto sul torace.
È curioso che, in questi testi, vi è l’uso di una terminologia che noi abbiamo poi tradizionalmente collegato alla cresima, cioè si parla dell’essere soldati di Cristo. Nella signatio pre-battesimale Teodoro di Mopsuestia parla proprio di essere unti per poter fungere da soldati di Gesù.
Sì, ma insomma tutto questo dove ci sta portando? Io adesso vi sto dicendo tutte queste cose, ma non stiamo arrivando al nocciolo del discorso. Perché i soldati si giungevano?! Beh, i soldati forse, ma i combattenti certamente si ungevano. Coloro che venivano unti, soprattutto nelle parti come il torace, o su tutto il corpo, erano i lottatori. Ecco che iniziamo a capire qualche cosa. Perché è collegato all’esorcismo? Quest’unzione, che resta ancora sul torace, riporta a questi antichi usi che riguardavano il fatto di entrare in un combattimento, l’entrare in una lotta dove i lottatori si ungevano per poter sfuggire alla presa dell’avversario. Ecco perché è prima del battesimo; perché il battesimo corona la fine di un combattimento, la fine di un cimento, quello che viene anche indicato dall’esorcismo: la vittoria di Dio nell’uomo sullo spirito del male e l’uomo che deve sfuggire alla presa. In effetti tutto questo parla del linguaggio della tentazione e parla dell’attitudine che l’uomo deve sviluppare, per poter entrare nella vita cristiana, di sfuggire alla presa della menzogna, di sfuggire all’avversario. Questo implica innanzitutto identificare la realtà di un avversario, l’esistenza di un avversario contro cui c’è da lottare; secondo, come si combatte. Questo segno dell’olio ci darà l’analogia del senso, della struttura, dello spirito, della forma più autentica del combattimento contro l’avversario.
Come i lottatori ungendosi riuscivano a sfuggire alla presa del nemico, così anche il cristiano deve, grazie all’olio, sfuggire alle tentazioni. Ma perché proprio quest’analogia?
È interessante per capire questa realtà la memoria di Perpetua, martire, che viene battezzata mentre aspetta di comparire per l’accusa di cristianesimo. È curioso che, è già segnata dal destino del martirio, e ancora non è battezzata, e nella notte, mentre si prepara a questi eventi -ricevere il battesimo e quindi essere subito martirizzata- fa un sogno, che lei racconta. È il sogno di un egiziano nero che la combatte. È un’immagine biblica: il nero quanto a oscurità, l’egiziano quanto al richiamo del nemico storico, il faraone e tutto quello che nell’Antico Testamento significava l’oppressione della schiavitù. Allora, l’egiziano la combatte e c’è un diacono che l’aiuta nel combattimento, un arbitro che la giudica, ma la saluta amichevolmente in questa lotta, e la saluta però con le parole di un vescovo, c’è cioè un vescovo che la sta giudicando: «sei pronta per il battesimo?». Il diacono la aiuta e l’egiziano la combatte; e in questo contesto lei viene unta, in questo contesto lei vince perché viene unta e l’egiziano non la riesce ad afferrare. Questo sogno di Perpetua, che si sta preparando al martirio, è piuttosto significativo, cioè indica che, caratteristica del catecumeno, più che del cristiano, è questa realtà dell’unzione che insegna a sfuggire. Bene, veniamo un pochino alla sostanza, al nocciolo del discorso.
È chiaro che tutti questi segni poi vengono contenuti nella vita cristiana ed è chiaro che la vita cristiana è una vita fuori mira se non viene identificata come pronta ad affrontare delle sfide, pronta ad affrontare delle tentazioni. Noi attraverso questo segno dell’olio e l’unzione dei lottatori abbiamo un’indicazione molto profonda su come si combatte il male nel nostro cuore, su come si combatte il male oggettivo, il maligno, il demonio e come si combatte contro tutto il suo codazzo, le sue opere e seduzioni. L’indicazione non è quella di armarsi di strumenti per distruggere l’altro, perché questo sarebbe tipico di un combattimento: avere armi per far male. No! L’arma è un’arma per non essere presi. Quello che qui viene sottolineato è che l’arma che viene consegnata, alla fine, è un po’ elementare. Dammi uno scudo, dammi una mazza, dammi un coltello, dammi una spada. No! Quello che viene fornito al battezzando, al catecumeno è uno strumento per sfuggire. Perché? Dietro c’è una sapienza molto seria. In effetti noi scopriamo che la postura migliore di fronte al maligno, di fronte al male, di fronte alle menzogne che entrano nel nostro cuore non è devastarle ed avere argomenti su argomenti, ma imparare l’arte di uscire dal gioco. Questo è un discorso molto serio. Non si vincono le battaglie più serie entrando nel campo di battaglia, ma sfuggendone.
Nella scrittura appare un’indicazione che ci torna utile in questo momento, cioè l’indicazione del primo tentatore, il serpente, il quale viene definito da Genesi 4,1 la più astuta delle bestie fatte dal Signore Iddio. Il serpente è più astuto. Più astuto di chi? Dell’uomo. Non è sul piano dell’astuzia che lo battiamo. Noi non battiamo il male della nostra vita entrando nei presupposti di chi ha deciso il campo di gioco e le armi per combattere, cioè il maligno che ha la capacità di portarci nel suo ambito. Una delle cose più sorprendenti del Vangelo è notare che il Signore Gesù Cristo normalmente non risponde alle domande, non accetta i presupposti delle domande, soprattutto le domande di tentazione. Quando vengono fatte delle domande subdole, delle domande che hanno un trucco dentro, il Signore Gesù non risponde alle domande. Noi possiamo vedere tutto questo preclaramente nel testo di Matteo 4 o Luca 4, cioè le tre tentazioni. Come si combatte? Beh, noi vediamo che il tentatore vuole portare in una prospettiva Gesù e Gesù cambia sempre prospettiva, non risponde direttamente alla domanda, cambia la prospettiva, sfugge alla presa dell’avversario. Ci sono delle prese su di noi che hanno la loro forza nella domanda. È alla domanda che non bisogna rispondere.
Sfuggire alle domande sbagliate; non lasciarsi tentare. Ma come si fa? Facciamo qualche esempio
concreto.
Diciamo che proprio questo è il difficile senso da spiegare della domanda del Padre Nostro: «liberaci dal male». Qui è sempre difficile tradurre: «non lasciare che noi nella tentazione cadiamo», «non abbandonarci nella tentazione», … bisogna fare delle perifrasi molto complicate. Si è proposta la nuova traduzione, andrà in auge, non andrà in auge, … Il punto è che il male è male. Allora dobbiamo dire delle cose velocemente che fungeranno per voi un pochino da intuizioni di riferimento, ma sarebbe interessantissimo entrare molto più nello specifico, ma non possiamo. Il male è caotico, il male è disordinato, il suo gioco non è un gioco pulito, non fa domande che sono oneste, ma sono disoneste a priori. Se noi vediamo per esempio la domanda che fa il serpente ad Eva in Genesi 3, se la prendiamo nell’originale ebraico, anche la traduzione stessa ci fa capire: «è vero che non potete mangiare di nessun albero?». Una cosa è domandare: «potete mangiare da tutti gli alberi?» oppure «non potete mangiare di nessun albero?»; ben altra cosa è domandare: «E’ vero che non potete mangiare di nessun albero?». In ebraico è ancora più evidente. Questa è una frase che indica come se la cosa fosse data già per risaputa. Peraltro, c’era poca gente in giro secondo quella descrizione. Però è curioso: il serpente crea già l’ambiente da nomea. Se a una persona gli si domanda: «hai difficoltà sul lavoro?», è una domanda. Se gli domando: «ma è vero che hai difficoltà sul lavoro?» vuol dire che qualcuno me ne ha già parlato, vuol dire che tu sei già in minorità, devi dimostrare che non è vero. E infatti Eva si incastra perché casca nel trucco. Il trucco è che la domanda è mal posta. Ci sono domande a cui non bisogna rispondere.
Questa problematica è estesa in un modo assolutamente indescrivibile. È il segreto molto spesso dell’infelicità umana. Le persone portano dentro di sé domande sbagliate. Vivono in una vita che potrebbe essere molto più gradevole, molto più piacevole, allegra, ma non se la godono perché il tentatore ha seminato nel loro cuore una domanda che non troverà mai risposta, una domanda che porta con sé un approccio sbagliato alla realtà. Si entra nell’avventura matrimoniale, per esempio, portando dentro di sé delle domande dall’infanzia. Ma è chiaro che il matrimonio è un fatto di oggi, mentre l’infanzia è un fatto di ieri. Non può l’oggi rispondere alle domande di ieri. Questo è il trucco con cui le persone si trovano nelle loro realtà, nelle loro relazioni con delle domande sbagliate, con delle attese a cui bisogna sfuggire, bisogna uscire dalla domanda, bisogna uscire dalla presa dell’avversario. Sicché se una persona, per esempio, si è ritrovata delle carenze nell’infanzia continua a chiedere al matrimonio che queste carenze vengano cancellate, risolte; ma mai e poi mai oggi, l’oggi risponderà a ieri. Il passato è passato. Il presente è presente. E allora che succede? Che uno viene posto in una condizione sbagliata, uno è di fronte alle persone con delle domande, uno è di fronte a se stesso con delle domande, uno è di fronte agli avvenimenti, all’avventura proprio esistenziale aspettando che arrivino delle risposte. Una regola essenziale della nostra esistenza è che la vita è un testo, la vita è un testo da leggere, la vita è una parola di Dio e noi dobbiamo saperla capire la nostra esistenza, la nostra avventura. Una regola della lettura dei testi è questa: se un testo non lo interrogo non mi dice niente. Se lo interrogo bene mi parlerà. Se faccio al testo la domanda sbagliata il testo non lo capisco. Se per esempio mi confronto con il testo delle nozze di Cana e mi chiedo quanti anni avevano gli sposi il testo non risponde. E se invece io inizio a ritenere che questo è un dato importantissimo inizio a pensare che il testo è sbagliato. No! Il testo non è sbagliato. È la domanda che è sbagliata. Se faccio la domanda giusta il testo risponde. Per esempio, se domando: ma quante giare erano quelle che Gesù cambiò in vino? Abbiamo la risposta: erano sei. E perché erano sei? Il testo ci ha risposto e allora dev’essere interessante questo dato. E infatti i padri della Chiesa si sono molto articolati sulla spiegazione di questo numero. Sia come sia, il punto è che noi abbiamo dei dati che ci sono e dei dati che non ci sono. La tecnica del maligno è metterci nella ricerca di ciò che non c’è. C’è adesso un elemento di sapienza essenziale che io sono contento di emettere, sono contento di dire questa cosa che illuminerà la sapienza mondiale definitivamente: se uno cerca quello che c’è lo trova. Se uno cerca quello che non c’è non lo trova. E abbiamo pregato molto per arrivare a questa sintesi teologica. Allora, se io cerco quello che c’è io probabilmente prima o poi lo trovo. Se io cerco quello che non c’è io sarò molto arrabbiato e più lo cerco meno lo trovo. Nella vita noi siamo lanciati a cercare quello che non c’è, siamo espropriati della felicità da queste attese che sono attese fuori mira. Nelle persone va cercato ciò che c’è. È inutile arrabbiarsi per una carenza di una persona. Le persone vanno valorizzate per quello che hanno, non vanno incastrate, costrette a diventare quello che uno ha bisogno che siano. E così la vita, e così la realtà.
Cosa indica questo? Indica che noi non dobbiamo metterci a discutere sul piano delle risposte, noi dobbiamo, nella sapienza cristiana, contestare le domande, chiederci se ci stiamo facendo la domanda giusta. Quando la domanda è posta bene il problema è già risolto, è già comunque dipanato, già abbiamo una via davanti. E così le tentazioni di vario genere, le tentazioni sensuali per esempio, ci pongono in necessità che non sono necessarie, ci lanciano in frustrazioni che sono molto meno fisiche e molto più ideali. È molto spesso un problema di giustizia. È giusto che io abbia questa tal soddisfazione, che io abbia questo tal appagamento? E invece qualcuno si risveglia, sfugge alla presa e mette in discussione, a monte, qual era la domanda, qual era la necessità. Quante volte succede che uno si sveglia, magari per mezzo di un fatto grave che succede, di un evento doloroso, e si rende conto che stava vivendo, chiedendo alla vita cose piccole, molto piccole. Noi abbiamo imparato che nelle tentazioni dell’orgoglio, nelle tentazioni dell’affermazione del proprio ego è il gioco che è sbagliato, è la pulsione che è fuori mira. Non è vero per niente che è necessario affermarsi per essere felici. Non è vero per niente che bisogna essere i primi per essere appagati. Non è vero per niente che uno deve avere tutte le cose che intorno a noi vediamo per stare bene. Per esempio, questa è una generazione intontita dal comfort, intontita dalle comodità. Noi siamo la generazione dello zapping e abbiamo tante cose che sono diventate troppo comode, troppo alla portata. E chi l’ha detto che è questo ciò che veramente ci rende felici? Tante volte quest’unzione che il catecumeno deve prendere è l’unzione dello sfuggire ai presupposti, lo sfuggire a ciò che è dato per scontato. Liberarsi dalle domande dell’infanzia, liberarsi dalle urgenze di questo mondo; tante cose che sembrano urgenti non sono urgenti per niente. Ma se uno cerca di dimostrare le cose a valle, cerca di uscire dalla tentazione di urgenza riguardo a qualcosa, riguardo a qualche oggetto, riguardo a qualche possesso a valle non ne esce, casca. Uno deve contestare l’esigenza a monte, lì deve uscire, deve divincolarsi.
Don Fabio Rosini