1. L’imposizione del nome
Abbiamo chiamato questa serie di incontri “la porta della vita” perché il battesimo rappresenta il principe dei sacramenti, il primo dei sacramenti e il più importante. Comunque dal sacramento del battesimo deriva tutto il resto della nostra vita cristiana. Il nostro interesse verte proprio sulla materialità del battesimo. Il battesimo è un rito. Il battesimo è molte cose in realtà, ma fondamentalmente poi si concretizza in un rito, in una serie di segni che hanno il loro linguaggio. Noi potremo molto approfondire sulla teologia del battesimo e sulle implicanze di questo tipo di realtà, ma faremo un lavoro molto più semplice, e se volete schematico. Prenderemo il semplice battesimo dei bambini, quello che la liturgia nella sua evoluzione storica poi piano piano ci ha lasciato come il precipitato, l’essenziale di quello che il battesimo è e dà, e lo guarderemo con attenzione negli elementi fondanti, che sono proprio la costituzione della ritualità del battesimo. Il rito va guardato come una esplicitazione sapiente, profonda, ricca del significato. Ahimè, oggi come oggi c’è una tendenza ad avere un po’ di antipatia preventiva verso il rito perché si vede il ritualismo come deriva di tutto ciò. Obiettivamente questo pericolo c’è, ma dobbiamo stare attenti a non scartare un po’ troppo. Dobbiamo stare attenti a un ritualismo vuoto, a un invocare il nome di Dio invano, come ci ricorda il secondo comandamento, e come si applica (cosa applicabilissima a tutta la realtà rituale della vita della fede); dobbiamo stare attenti, appunto, a invocare il nome di Dio con sostanza, e a vivere i riti che esplicitano in maniera mirabile, in maniera ricchissima e molto utile la verità della nostra fede. Il battesimo logicamente arriva a essere un rito. Nella preparazione dei genitori che devono presentare i loro bimbi per il battesimo, gli si deve sempre dire che il battesimo non è un rito, è molti riti, sono vari elementi che vengono messi uno dopo l’altro in una sapiente successione, e che ricordano l’antico percorso di preparazione, che è tuttora presente, che qualunque adulto che chieda il battesimo in età matura deve fare per arrivare all’ultimo rito, il rito del battesimo e ciò che ne consegue. Questo perché il battesimo in sé ha il suo centro nel rito vero e proprio del battesimo che concerne l’incontro con l’acqua, ma viene preceduto appunto da una serie di atti. Entriamo quest’oggi nel primo rito, nel primo atto. Mentre si potrebbe pensare già a cose che vengono fatte più avanti, noi proprio ci fermiamo alla primissima frase. Sia nel battesimo degli adulti, che nel molto più frequente battesimo dei bambini, la prima cosa che succede è un dialogo, ovverosia, il presidente, colui che conferirà il battesimo, dice ai genitori che presentano il bambino, o al candidato stesso, se è un adulto: “Che nome date al vostro bambino?”, all’adulto domanderà: “Qual è il tuo nome?”. È molto interessante questa prassi (che noi guarderemo con più attenzione relativamente al battesimo dei bambini, perché è la più frequente, e perché il battesimo degli adulti ci chiederebbe un approfondimento molto più serio, diciamo così, circostanziato, per quanto riguarda anche tutta una teologia del battesimo che qui vogliamo un pochino guardare con semplicità, con elementarità).
Allora, il primo segno del battesimo, il primo indizio di una vita che cambia, di una vita nuova che viene consegnata a questa creatura e che deve essere dai genitori preservata e a lui, al bambino, esser resa cosciente, nella migliore delle iniziazioni che è l’educazione cristiana, è crescere in una famiglia cristiana. Essa insegna, attraverso le cose che si imparano piano piano nella vita, a vivere la vita cristiana; ecco, la prima cosa che viene chiesta è di imporre un nome al bambino. A questa domanda “Che nome date al vostro bambino?” i genitori risponderanno e noi potremo guardarlo come un problema semplicemente di identificazione; vabbè, questo bambino come si chiama, come lo chiamiamo, qui dovremmo fare una serie di cose con lui, lo chiameremo in qualche maniera perché questo diciamo è un fattore pratico. No, questo non è un fattore pratico.
La prima cosa che dobbiamo dire è che i genitori daranno il nome al bambino, e questo non è semplicemente un atto che indica una scelta; i genitori lo chiamano come lo zio, come il nonno, siccome ci sta tutta una serie di tasse sulla parentela da pagare, allora avverrà questa cosa qua. No, no, è molto più che questo.
Il nome al bambino i genitori lo daranno non solamente in quel giorno, ma lo daranno con la vita che vivranno con lui. Il bambino prenderà il nome, la sua identità, dal modo di essere dei genitori. I genitori segneranno il nome di questo bambino con tutto ciò che sceglieranno, con tutto ciò che faranno, con tutto ciò che diranno e che non diranno. Dire ai genitori: “Che nome date al vostro bambino?” è renderli coscienti di una cosa: voi disegnerete la vita di questo bimbo col vostro essere, con le vostre scelte, col vostro modo di fare, voi darete un confine all’identità di questo bambino. Diceva don Oreste Benzi: “Ciò che sei grida molto più forte di ciò che dici”. Ecco, i genitori devono essere resi coscienti che stanno dando il nome; lo daranno, volenti o nolenti, determineranno il nome di questo bambino, di questa bambina, con le loro scelte, con i loro modi di essere.
Quindi la scelta da parte dei genitori di dare un nome al proprio bambino va ben oltre la praticità della scelta stessa. Ci sono dei significati molto più profondi che sono implicati in questo gesto per cui dobbiamo capire bene il nome che cos’è. Cos’è il nome? Qui dobbiamo sempre grattare sotto l’apparenza di una cosa evidente. Il nome, vabbè, il nome di una cosa… un momentino.
Dietro alla realtà del nome c’è una capacità, che è una capacità umana, quella di dare un nome alle cose. Noi siamo diversi dagli altri animali perché abbiamo la facoltà comunicativa, diretta, verbale. Forse esisteranno animali molto intelligenti, però per quanto si industrino, non riescono a dare un nome alle cose. Noi abbiamo questa capacità, che è proprio la capacità dell’uomo.
Questa storia del dare un nome è piuttosto interessante perché è una figura di creazione. Quando Adamo viene creato deve dare un nome alle cose. Questo è l’uomo che dà un nome alle cose. È interessante che le cose hanno un nome. Noi diciamo spesso: “Mah, chiamiamo le cose per nome!”, eh; o diciamo: “In nome di che fai questo?”. E qui andiamo infatti all’interessante etimologia della parola “nome”. Nome, dal latino nomine, dal greco onoma. Onoma, se noi lo andiamo a cercare in un vocabolario etimologico troveremo un primo senso che è il senso di “nome”. È interessante che il secondo senso sarà il senso di “pretesto”. Un nome può essere un nome o un pretesto. Può essere un nome vero o un nome falso. Noi possiamo chiamare le cose in maniera sbagliata. C’è il profeta Isaia che al capitolo quinto dice: “Guai a coloro che chiamano il bene male e il male bene”. Dare i nomi sbagliati alle cose non è un semplice errore di codice, è un errore di vita. Chiamare le cose come non sono, avere il nome sbagliato vuol dire sbagliare esistenza. Un nome può essere un nome, cioè la verità, e può essere un pretesto. Si discute fra i grammatici se la radice della parola onoma venga dalla radice ghno, da cui, ghnosco, ighnosco, vuol dire “conoscere”. Non è molto sicuro questo fatto. Certo è che il nome è usabile bene o male. Può essere appunto nome, o può essere, ripeto, un pretesto, cioè un nome sbagliato, un testo che viene appiccicato sopra, un pretesto, una cosa che viene definita, ma non è. In ebraico nome si dice scèm. Pare che la radice della parola indichi più un segno di riconoscimento, un segnale che identifichi una certa realtà.
Ma ciò che più ci interessa è scoprire che cosa è il nome nella Scrittura. Il nome nella Scrittura non rappresenta semplicemente un codice di riconoscimento, ovverosia il dire: “Questo si chiama Franco, è Franco, punto e basta”. No, Franco nella Scrittura vorrebbe dire un tipo verace, perché franco vuol dire “franchezza”, o forse “viene dalla Francia”, comunque quello che è l’adagio nomen, omen, è in realtà derivato da una realtà tipica nella Bibbia. Le persone hanno nel loro nome la loro verità. Dobbiamo stare attenti a non esagerare in questo senso, ci dicono gli studiosi. Non tanto nel senso, addirittura, di una realtà dell’anima, quanto secondo quella che è una attrattiva, una calamita verso i significati, tipica della logica ebraica, che tende a definire la funzione di una persona, cioè il suo modo di agire, o anche il suo destino, comunque qualcosa di storico, qualcosa di attivo. Il nome di una persona è ciò che lui è in relazione, ciò che è nella storia, ciò che in fondo è per gli altri. Perché se noi ci pensiamo bene, il nostro nome non serve a noi, serve agli altri. Dare un nome alla persona, vuol dire attribuirgli una funzione nella nostra vita o comunque attribuirgli una funzione nella società. Tutto questo io credo possa risultare un pochino astratto, ma se noi adesso un pochino andiamo a questa conseguenza, noi abbiamo un nome.
Il battesimo tocca l’argomento nome, tocca l’argomento identità, e dice: “Un momentino, tu chi sei?” Un momentino, dice ai genitori: “Ma questo bambino, questa bambina, ma chi è?”. Dicendo il nome, noi speriamo che i genitori siano coscienti di una grandezza che è nascosta in questo atto. La grandezza verte sul fatto che una persona riceve un nome in un rito. C’è un detto rabbinico molto interessante. Questo detto dice che un uomo riceve un nome dai genitori. La gente gliene dà un secondo, e finalmente se ne vince un terzo con la propria vita.
Ciascuno di noi riceve un nome che qualcuno sceglie per lui, appunto i genitori. Ma cosa significa che questa scelta avvenga all’interno del rito del battesimo? È questa la grazia battesimale. La grazia battesimale non è la grazia semplicemente di un rito che ci mette in una condizione magari di salvezza giuridica o cose di questo genere. È un problema di identità. È il mio nome che cambia. È molto interessante che nel rito del battesimo degli adulti, qui è il momento per cambiare nome. Anticamente, era abbastanza tipico cambiare nome nel momento del battesimo. È interessante stare in terra di missione, dove c’è una cultura estranea al cristianesimo, e dove la gente ha due nomi: ha il nome civile e il nome di battesimo. Noi diciamo “il nome di battesimo”. Qual è il mio nome di battesimo? Noi vivendo felicemente in una cultura che ha una grossa tradizione cristiana, abbiamo nomi che normalmente portano in sé storie di santi, richiami alla fede cristiana, anche se normalmente abbiamo svuotato questi nostri nomi, e li abbiamo ri-riempiti di che cosa?
Beh, vediamo, questo detto rabbinico è piuttosto interessante, ci schematizza il lavoro. C’è un nome che ci danno i genitori. Nel rito ci sono i genitori che danno il nome per l’appunto, perché è la loro verità, perché è la loro funzione, a questa cosa non scapperanno, comunque lo daranno il nome. Ma è anche vera una cosa. In questo rito, si chiede a questi genitori di prendere l’impegno di crescere nella fede questo bambino. Si pensa a dei genitori che hanno la fede, si parla a genitori a cui si richiede poi, più avanti, di professare la fede. Ma i genitori porteranno la loro carnalità, porteranno la loro identità fragile, e il bambino, la bambina, riceverà il nome dei genitori. E questo è il nome della nostra infanzia. E si può passare tutta la vita segnati, marcati dal nome dell’infanzia. In questo senso si può anche un po’ far menzione misericordiosa, ma non priva di una certa irrisione, di certi nomignoli che uno si porta dall’infanzia; uno viene chiamato in maniera irripetibile in un luogo come questo, dove le persone si portano tutta la vita queste cose da bambocci, da bimbetti, cose immature, queste abbreviazioni, questi accorpamenti, questi labiali, queste vocali un po’ dette così, in maniera infantile, questo modo di parlare da bambini, questo modo di essere con ancora il ruolo dei bambini. Conosco un ragazzo che ha un nome splendido. Si chiama Simon Pietro, tutti lo chiamano Pepo. È un bambino, o è un uomo? Io mi rifiuto di chiamarlo Pepo. Che Pepo? Tu sei Simon Pietro. Tu sei un uomo, sei un adulto. Ancora ti chiamiamo con il nome di quando eri un bamboccio? Non è possibile. Ciò non è accettabile. Eppure si continua a vivere moltissimo la vita col proprio nome infantile. Nel nome della propria infanzia, nel pretesto della propria infanzia, senza il proprio vero nome, senza la propria maturità di nome adulto, compiuto, il nome del proprio battesimo, della propria dimensione di figli di Dio, il nome che Dio indica. Ecco, entrare nella vita e vivere il matrimonio, le amicizie, il lavoro, con tutto quel corpo di richieste infantili, col nome di un bambino, con il nome di un bambino, con i denti da latte si mastica la vita molto spesso. Quel nome va abbandonato, con quel nome bisogna saper recidere, il battesimo ha il suo nome, non è il nome delle smancerie, del bimbetto, è il nome di un adulto, è il nome di qualcuno che porta in sé la vita eterna, e non la vita transeunte, fragile, dell’infanzia che va abbandonata, e che speriamo, sia abbandonata sempre di più dall’umanità.
C’è poi un secondo nome che ciascuno di noi riceve, ed è quello che viene scelto dal mondo. Ecco, c’è il nome che appunto è, tantissime volte, questo: solamente “pretesto”. Essendo il nome la nostra funzione, diventa il ruolo che abbiamo nel mondo; dire il proprio nome per mezzo delle cose che uno è chiamato a fare, ricevere invece il nome dalle cose, che le cose mi dicono il mio nome, che i ruoli, che le occasioni di questo mondo mi attribuiscono, ecco, diventano il mio nome. Io non sono i miei ruoli. Come un uomo quando lavora non è il lavoro. Lui agisce il lavoro, il lavoro non agisce lui. Il lavoro non gli dà l’identità. Lui dà identità al lavoro. Come un uomo nelle relazioni dà vita alle cose che fa a partire dal suo essere, non riceve l’essere dalle cose che fa, perché è lui che le fa. Può sembrare filosofico questo, ma il punto è che tantissime volte si resta incartati, inglobati, incapsulati, incarcerati dentro quella che è la nostra azione all’interno della società, degli ambienti, e così si passa dal ruolo infantile al ruolo mondano. Cioè si passa a questo essere non noi stessi, ma quello che gli altri si aspettano da noi. Essere incastrati nei ruoli, che sono artefatti, che ci precedono, che non sono la nostra vera identità. Quando Cristo torna a Nazareth, gli si dice: “Ma questo uomo è il figlio del falegname?”. No, non può agire da figlio di Dio. Non può essere il suo vero nome, deve essere il ruolo che noi ci aspettiamo da lui. Attenzione, se uno vuole assumere il proprio nome battesimale si troverà sempre a dover rompere con dei ruoli, a dover rompere con delle aspettative, a dover rompere con tutti quei nomi che gli uomini ci hanno dato, quello che noi siamo per gli altri. Quanti nomignoli che feriscono le persone! Quanti soprannomi! Soprattutto nei piccoli centri le persone si ritrovano addosso appiccicato un soprannome, e uno resta così per tutta la vita. Gesù, infatti, a personaggi come Pietro e a personaggi come Giovanni e Giacomo gli ha cambiato il nome, perché non fossero quello che la società aveva prodotto in loro, ma fossero la relazione nuova.
E qui dobbiamo arrivare al nome che ci dà Dio, al nome del nostro battesimo. Questo è ciò che veramente ci interessa per entrare per la porta della vita.
Prendere possesso del nostro vero nome, del nome nuovo che Dio stesso ci dà. Qual è questo nome? Ecco, il nome nuovo, il nome vero, il nome bello, quale è la nostra verità, ciò che il battesimo annunzia. Io devo ricordarmi chi sono nel mio battesimo. È interessante che c’è una profezia di Isaia, al capitolo 62°, dice: “Ti si chiamerà con un nome nuovo, che la bocca del Signore avrà indicato”. Ti si chiamerà con un nome nuovo. Quante volte io ho visto questa cosa realizzarsi nell’esistenza delle persone. Quando le persone riscoprono il proprio battesimo, quando scoprono il battesimo, quando scoprono la vita cristiana, scoprono un nome nuovo, scoprono di essere persone nuove, di avere un altro codice del proprio essere. Ma questo nome è un dono di Dio.
È interessante la terminologia dell’Antico Testamento, i termini che sono implicati da questo cambiare nome, perché è interessante questo rituale del nome che era molto frequente nell’Antico Testamento, questo del cambio del nome. Ci sono profeti come Daniele, ci sono personaggi che cambiano nome a seconda del re; cambia il re, cambia il nome. Ecco, c’è il nome che mi dà il mio re, ma se finalmente arriva il Regno dei Cieli io cambierò nome, io sarò un altro. E ci sono dei termini che sono collegati, dei verbi che sono collegati a questo atto di cambiare nome. Un termine è il verbo sabbab, che vuol dire voltare, mutare. Primo, il mio nome è un cambiamento, il mio nome è una mutazione, io sono chiamato a mutare, a cambiare, nel nome che Dio mi dà, nel nome del mio incontro con Dio dove Lui mi chiamerà con un nome nuovo, come anche il libro dell’Apocalisse proclama; ecco, io sarò cambiato. C’è chi non spera di cambiare. Per poter conoscere il proprio nuovo nome, il nome autentico, la propria verità, bisogna lasciarsi portare a una novità, alle cose che uno ancora non sa, che ancora non ha capito di sé.
Un altro termine è il verbo karà, che vuol dire proclamare, chiamare. Questa è una realtà, è Dio che proclama il mio nome, solo Dio sa chi sono io veramente. C’è tanta tristezza nella vita delle persone che si fanno dire dai propri atti -che spesso magari sono errori- o dagli atti altrui -che spesso sono pretese, o fragilità, o cose fuori mira- chi sono. Lasciamoci dire dal Signore Gesù Cristo chi siamo. Lui sulla croce ci dice chi siamo, chi siamo per Lui, gente che vale la Sua vita; il mio nome me lo insegna la croce di Cristo. Lui proclama con la Sua morte e risurrezione chi sono io. Io sono prezioso, perla preziosa per cui Lui vende tutto.
E l’ultimo termine che viene usato, l’ultimo verbo è il verbo proprio onomastico, dal termine scèm nome, c’è il verbo scim, che vuol dire “dare il nome”. Ecco, però questo vuol dire “riceverlo”. Il nome di Dio è un regalo. Il nome di Dio si riceve. Dio lo dà. Avere un nome nuovo. Bisogna imparare il nome che la croce di Cristo ci ha conquistato, un nome che è il nome di preziosi, di persone importanti.
Il mio nome può essere molto spesso un pretesto. Nella vita cristiana il mio nome è gioiello, è amato, è degno di riguardo da parte del Dio di ogni realtà, del Signore dei Signori. C’è un nome che è la mia missione, c’è un nome che è la mia grandezza. Simone verrà chiamato Pietro, la sua missione sarà la fede, sarà proclamare la fede, vivere la fede, sarà un nome che lui riceverà scrollandosi del suo vecchio nome, del nome del suo ruolo, del nome di figlio di Giovanni, come si chiamava suo padre. Ecco, è nuovo il suo nome. Il nostro nome è la nostra missione, la missione che Dio ci dà. Lì ci libereremo dall’infanzia, lì ci libereremo dai ruoli ossessivi, asfissianti che la società ci può attribuire. Ho una cosa bella da fare. Ogni uomo, ogni donna conosce il suo nome quando scopre la sua potenzialità in Dio, quando scopre che Dio ti affida qualcosa di bello da fare, e tutti hanno qualcosa di bello da fare. Tutti hanno qualcosa di importante. Molto spesso ho visto malati che hanno creduto al loro nome, che sul letto del loro dolore hanno saputo amare, perdonare, illuminare, elargire grazia. E invece conosco persone abili, e arruolate dalla vita, che sono in condizioni di poter fare tante cose, e fanno cose da quattro soldi, perché credono nel nome della loro infanzia o al nome del ruolo mondano. Non credono a un’opera di Dio. Non credono alla grandezza che Dio ha destinato loro.
Don Fabio Rosini