Carissimi,
la chiesa, come madre, insegna alla fine di ogni anno a cantare il Te Deum e alla fine di ogni giorno mette sulle labbra di ogni discepolo di Gesù il canto del Magnificat. Alla fine di ogni cosa, di ogni impresa, di ogni avventura, di ogni realtà c’è il rischio di rimanere con l’amaro in bocca. C’è il rischio di essere sopraffatti da un senso di tristezza perché ci si trova di fronte all’ineluttabilità del tempo che non fa sconti a nessuno e riesce a vincere anche quelli che gli resistono con le diete più oculate, con gli esercizi fisici più costanti, quelli che si oppongono con la chirurgia estetica e con le possibilità economiche, coloro che possono garantire cure
e specialisti straordinari…
Chi cammina con la testa bassa non può cantare. Se lo fa, intona solo le lodi per le sue imprese. Se lungo il viaggio abbiamo visto soltanto le nostre povere opere non abbiamo colto niente di più di quello che ha visto il nostro povero sguardo. Se lungo il viaggio abbiamo visto solo dove abbiamo messo i nostri piedi non avremo avuto modo di vedere le attenzioni meravigliose dei nostri compagni di viaggio, il loro aiuto prezioso, il loro sostegno importante, la parte più bella di tutta ’avventura che si vive sempre in carovana, le gioie più deliziose che si presentano solo in gruppo, le consolazioni più indelebili che ritroviamo solo in una dolce amicizia, le risate più felici che si accendono solo con gli altri…
Quando si è troppo concentrati su se stessi non si vedono i regali della vita che arrivano sempre inaspettati, numerosi e incartati male. C’è una lunghissima litania generosa della vita che non abbiamo meritato e non abbiamo neppure chiesto. Noi siamo soliti chiamarla provvidenza perché siamo sicuri che nel groviglio del tempo siamo accompagnati e sostenuti da una cura paterna discreta e paziente.
Il tempo che passa può diventare una piccola tortura se non riusciamo a vedere lo spettacolo di questa generosità che ci circonda. Un canto molto conosciuto suona: “dolce è capire che non sono più solo, ma che son parte di una immensa vita che generosa risplende intorno a me, dono di Lui del suo immenso amore”. C’è il rischio di finire l’anno in baldoria e senza gratitudine; di divertirsi senza riconoscere il bene che abbiamo ricevuto, di cercare negli oroscopi prospettive più interessanti buttando via, senza averlo guardato attentamente , il tempo trascorso.
Noi cantiamo sicuri che questo tratto di strada è stato disseminato di piccole meraviglie, di angeli invisibili, di doni lievi e preziosi…
Noi cantiamo perché il Padre non smette di guardare con sguardo di tenerezza questa terra abbruttita dalla nostra ingordigia e dalle nostre cattiverie; cantiamo perché Egli non ci volta le spalle, perché ci aspetta sempre con misericordia; cantiamo perché continua a credere che ogni attimo è quello buono…
Non cantiamo per l’opera nostra, ma per l’opera sua perché se gli lasciamo un po’ di spazio, come hanno fatto i santi, Egli può continuare a fare cose grandi anche nella nostra vita.
Tantissimi auguri per questo tempo che ci si presenta davanti come una promessa. Che nulla vada perso. Che nessuno di noi si perda tutta la bellezza che porta e che nasconde nel ritmo sempre uguale dei giorni.
Il Signore vi benedica, vi custodisca e vi dia pace.
p. Emanuele, p. Francesco e p. Amedeo
IL PRESEPE DI GRECCIO SCUOLA DI SOBRIETÀ E DI GIOIA
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
800 anni fa, nel Natale 1223, San Francesco realizzò a Greccio il presepe vivente.
Mentre nelle case e in tanti altri luoghi si sta preparando o ultimando il presepe, ci fa bene riscoprirne le origini.
Come è nato il presepio? Qual è stata l’intenzione di San Francesco? Diceva così: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un
neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello» (Tommaso da Celano, Vita prima, XXX, 84: FF 468). Francesco non vuole realizzare una bella opera d’arte, ma suscitare, attraverso il presepe, lo stupore per l’estrema umiltà del
Signore, per i disagi che ha patito, per amore nostro, nella povera grotta di Betlemme. Infatti il biografo del Santo di Assisi annota: «In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme» (ivi, 85: FF 469). Io ho sottolineato una parola: lo stupore. E questo è importante. Se noi cristiani guardiamo il presepe come una cosa bella, come una cosa storica, anche religiosa, e preghiamo, questo non è sufficiente. Davanti al mistero dell’incarnazione del Verbo, davanti alla nascita di Gesù, ci vuole questo atteggiamento religioso dello stupore. Se io davanti ai misteri non arrivo a questo stupore, la mia fede è semplicemente superficiale; una fede “da informatica”. Non dimenticate questo.
E una caratteristica del presepe, è che nasce come scuola di sobrietà. E questo ha molto da dire a noi. Oggi, infatti, il rischio di smarrire ciò che conta nella vita è grande e paradossalmente aumenta proprio sotto Natale – si cambia la mentalità di Natale -: immersi in un consumismo che ne corrode il significato. Il consumismo del Natale. È vero, che si vuole fare dei regali, questo va bene, è un modo, ma quella frenesia di andare a fare le spese, questo attira l’attenzione da un’altra parte e non c’è quella sobrietà del
Natale. Guardiamo il presepio: quello stupore davanti al presepio. A volte non c’è spazio interiore per lo stupore, ma soltanto per organizzare le feste, per fare le feste.
E il presepe nasce per riportarci a ciò che conta: a Dio che viene ad abitare in mezzo a noi. Per questo è importante guardare il presepe, perché ci aiuta a capire quello che conta e anche le relazioni sociali di Gesù in quel momento, la famiglia Giuseppe e Maria,
e le persone care, pastori. Le persone prima delle cose. E tante volte noi mettiamo le cose prima delle persone. Questo non funziona.
Ma il presepe di Greccio, oltre che quella sobrietà che fa vedere, parla anche di gioia, perché la gioia è una cosa differente dal divertimento. Ma divertirsi non è una cosa cattiva se si fa sulle strade buone; non è una cosa cattiva, è una cosa umana. Ma la gioia è più profonda ancora, più umana. E alle volte c’è la tentazione di divertirsi senza gioia; divertirsi facendo rumore, ma la gioia non c’è. È un po’ la figura del pagliaccio, che ride, ride, fa ridere, ma il cuore è triste. La gioia è la radice di un buon divertimento per Natale.
E sulla gioia, dice la cronaca di allora: «E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! […] Francesco […] è raggiante […]. La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima […]. Ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia» (Vita prima, XXX, 85-86: FF 469-470). La sobrietà, lo stupore, ti porta alla gioia, la vera gioia, non quella artificiale.
Ma da cosa derivava questa gioia natalizia? Non certo dall’avere portato a casa dei regali o dall’aver vissuto celebrazioni fastose. No, era la gioia che trabocca dal cuore quando si tocca con mano la vicinanza di Gesù, la tenerezza di Dio, che non lascia soli, ma consola.
Vicinanza, tenerezza e compassione, così sono i tre atteggiamenti di Dio. E guardando il presepio, pregando davanti al presepio, noi potremo sentire queste cose del Signore che ci aiutano nella vita di ogni giorno.
Cari fratelli e sorelle, il presepe è come un piccolo pozzo dal quale attingere la vicinanza di Dio, sorgente della speranza e della gioia. Il presepe è come un Vangelo vivo, un Vangelo domestico. È come il pozzo nella Bibbia, è il luogo dell’incontro, dove portare a Gesù, come hanno fatto i pastori di Betlemme e la gente di Greccio, le attese e le preoccupazioni della vita. Portare a Gesù le attese e le preoccupazioni della vita. Se davanti al presepe affidiamo a Gesù quanto abbiamo a cuore, proveremo anche noi «una gioia grandissima» (Mt 2,10), una gioia che viene proprio dalla contemplazione, dallo spirito di stupore con il quale io vado a contemplare questi misteri. Andiamo davanti al presepe. Ognuno guardi e lasci che il cuore senta qualcosa.
PAPA FRANCESCO UDIENZA GENERALE Aula Paolo VI Mercoledì, 20 dicembre 2023
VERO STUPORE E NON EMOZIONE SUPERFICIALE
In questi giorni la Liturgia ci invita a risvegliare in noi lo stupore, lo stupore per il mistero dell’Incarnazione. La festa del Natale è forse quella che maggiormente suscita questo atteggiamento interiore: lo stupore, la meraviglia, il contemplare… Come i pastori di Betlemme, che prima ricevono il luminoso annuncio angelico e poi accorrono e trovano effettivamente il segno che era stato loro indicato, il Bambino avvolto in fasce dentro una mangiatoia. Con le lacrime agli occhi si inginocchiano davanti al Salvatore appena nato. Ma non solo loro, anche Maria e Giuseppe sono pieni di santa meraviglia per quello che i pastori raccontano di aver udito dall’angelo riguardo al Bambino.
È così: non si può celebrare il Natale senza stupore. Però uno stupore che non si limiti a un’emozione superficiale – questo non è stupore –, un’emozione legata all’esteriorità della festa, o peggio ancora alla frenesia consumistica. No. Se il Natale si riduce a questo, nulla cambia: domani sarà uguale a ieri, l’anno prossimo sarà come quello passato, e così via. Vorrebbe dire riscaldarsi per pochi istanti ad un fuoco di paglia, e non invece esporsi con tutto il nostro essere alla forza dell’Avvenimento, non cogliere il centro del mistero della nascita di Cristo.
E il centro è questo: «Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Lo sentiamo ripetere a più riprese in questa liturgia vespertina, con la quale si apre la solennità di Maria Santissima Madre di Dio. Lei è la prima testimone, la prima e la più grande, e nello stesso tempo la più umile. La più grande perché la più umile. Il suo cuore è colmo di stupore, ma senza ombra di romanticismi, di sdolcinatezze, di spiritualismi. No. La Madre ci riporta alla realtà, alla verità del Natale, che è racchiusa in quelle tre parole di San Paolo: «nato da donna» (Gal 4,4).
Lo stupore cristiano non trae origine da effetti speciali, da mondi fantastici, ma dal mistero della realtà: non c’è nulla di più meraviglioso e stupefacente della realtà! Un fiore, una zolla di terra, una storia di vita, un incontro… Il volto rugoso di un vecchio e il viso appena sbocciato di un bimbo. Una mamma che tiene in braccio il suo bambino e lo allatta. Il mistero traspare lì.
Fratelli e sorelle, lo stupore di Maria, lo stupore della Chiesa è pieno di gratitudine. La gratitudine della Madre che contemplando il Figlio sente la vicinanza di Dio, sente che Dio non ha abbandonato il suo popolo, che Dio è venuto, che Dio è vicino, è Dio-con-noi. I problemi non sono spariti, le difficoltà e le preoccupazioni non mancano, ma non siamo soli: il Padre «ha mandato il suo Figlio» (Gal 4,4) per riscattarci dalla schiavitù del peccato e restituirci la dignità di figli. Lui, l’Unigenito, si è fatto primogenito tra molti fratelli, per ricondurre tutti noi, smarriti e dispersi, alla casa del Padre.
Questo tempo di pandemia ha accresciuto in tutto il mondo il senso di smarrimento. Dopo una prima fase di reazione, in cui ci siamo sentiti solidali sulla stessa barca, si è diffusa la tentazione del “si salvi chi può”. Ma grazie a Dio abbiamo reagito di nuovo, con il senso di responsabilità. Veramente possiamo e dobbiamo dire “grazie a Dio”, perché la scelta della responsabilità solidale non viene dal mondo: viene da Dio; anzi, viene da Gesù Cristo, che ha impresso una volta per sempre nella nostra storia la “rotta” della sua vocazione originaria: essere tutti sorelle e fratelli, figli dell’unico Padre.
Roma, questa vocazione, la porta scritta nel cuore. A Roma sembra che tutti si sentano fratelli; in un certo senso, tutti si sentono a casa, perché questa città custodisce in sé un’apertura universale. Oso dire: è la città universale. Le viene dalla sua storia, dalla sua cultura; le viene principalmente dal Vangelo di Cristo, che qui ha messo radici profonde fecondate dal sangue dei martiri, cominciando da Pietro e Paolo.
Ma anche in questo caso, stiamo attenti: una città accogliente e fraterna non si riconosce dalla “facciata”, dalle parole, dagli eventi altisonanti. No. Si riconosce dall’attenzione quotidiana, dall’attenzione “feriale” a chi fa più fatica, alle famiglie che sentono di più il peso della crisi, alle persone con disabilità gravi e ai loro familiari, a quanti hanno necessità ogni giorno dei trasporti pubblici per andare al lavoro, a quanti vivono nelle periferie, a coloro che sono stati travolti da qualche fallimento nella loro vita e hanno bisogno dei servizi sociali, e così via. È la città che guarda a ognuno dei suoi figli, a ognuno dei suoi abitanti, anzi, a ognuno dei suoi ospiti.
Roma è una città meravigliosa, che non finisce di incantare; ma per chi ci vive è anche una città faticosa, purtroppo non sempre dignitosa per i cittadini e per gli ospiti, una città che a volte sembra scartare. L’auspicio allora è che tutti, chi vi abita e chi vi soggiorna per lavoro, pellegrinaggio o turismo, tutti possano apprezzarla sempre più per la cura dell’accoglienza, della dignità della vita, della casa comune, dei più fragili e vulnerabili. Che ognuno possa stupirsi scoprendo in questa città una bellezza che direi “coerente”, e che suscita gratitudine. Questo è il mio augurio per quest’anno.
Sorelle e fratelli, oggi la Madre – la Madre Maria e la Madre Chiesa – ci mostra il Bambino.
Ci sorride e ci dice: “Lui è la Via. Seguitelo, abbiate fiducia. Lui non delude”. Seguiamolo, nel cammino quotidiano: Lui dà pienezza al tempo, dà senso alle opere e ai giorni. Abbiamo fiducia, nei momenti lieti e in quelli dolorosi: la speranza che Lui ci dona è la speranza che non delude mai.
Omelia del Santo Padre Francesco – Venerdì, 31 dicembre 2021