Carissimi,
ringraziamo il Signore per la presenza in mezzo a noi di Pietro Sarubbi. Grazie a tutti voi che avete accolto questa iniziativa. Grazie al Rettore della nostra università che si mostra sempre disponibile e cordiale.
Incontrare Pietro Sarubbi vuol dire incontrare una storia. Vedere da vicino come opera la provvidenza. Toccare con mano i tempi di Dio. Riconoscere che veramente le vie di Dio non sono le nostre vie e i suoi pensieri non sono i nostri. Ma nello stesso tempo cogliere in filigrana che tutto quello che viene prima non è una premessa inutile o da buttare, ma che tutto diventa grazia -anche ciò che noi toglieremmo volentieri dalla nostra biografia- e mette in risalto ancora meglio la “carezza” di Dio, così come la chiamava Pietro.
Trafugate nelle vostre vite come si fa in una vecchia soffitta e aprite i vecchi bauli di legno pieni di storia; chiedete al Signore la luce, anche poca, per vedere con meraviglia il disegno nel quale la vita vi ha collocati, per stupirvi di fronte a una storia che mai e poi mai avreste potuto immaginare o inventare.
Non c’è cosa più bella di questa: trovarsi di fronte alla propria vita come di fronte a un’opera d’arte, di fronte a un capolavoro uscito dalle mani di Dio.
La fede alla fine non è questa stupida superstizione che tenta di mettere al riparo la vita da pericoli e minacce, che più che aiutarci a vivere ci porta a nasconderci e a scappare come se tutto fosse sbagliato e tutto pericoloso.
La fede è leggere nella nostra vita una bontà che non sempre abbiamo saputo riconoscere, una bontà silenziosa, una bontà paziente, una premura che non ci molla, non si stanca, che ci aspetta, che ci lascia andare, ma muore all’idea di perderci.
La fede è leggere nella nostra storia la lunghissima lista di attenzioni che a noi sembravano solamente “puro caso” o delle “coincidenze semplicemente favorevoli” rispetto al vento contrario.
La fede è un incontro con uno sguardo, un povero, un fallimento, una sorpresa, una novità, un regalo inaspettato, un dolore che sveglia, una parola che parla come non ha mai parlato nessun’altra parola, un viaggio, un ostacolo che sbarra la strada, una porta che si apre…
La meraviglia delle meraviglie è che Dio si siede e ci aspetta al “pozzo” dove noi andiamo a prendere l’acqua. Dio come passava vicino a un lago dove uomini semplici si guadagnavano il pane e riempivano la loro vita di significato, così passa anche sul set di un film per chiamare chi sta lì a guadagnarsi il pane e sta tentando di scrivere per sempre il suo nome nella storia.
Dio non è lontano dalle nostre strade. Ci aspetta dove passiamo. Si nasconde in coloro che ci avvicinano. Ci osserva da lontano per cogliere qualsiasi momento opportuno, ogni attimo propizio, ogni lampo favorevole per inventarsi qualcosa e affacciarsi sulla soglia della nostra vita.
Certo la vita di Pietro S. sembra più intrigante perché lui si è trovato a considerare poco ciò che nella nostra immaginazione è molto -e a volte è addirittura tutto: avere una vita da star. Ma ogni storia, a guardarla bene e con gli occhi puliti da ogni forma di vuota illusione, è meravigliosa. È un racconto unico. È una storia di salvezza. È l’avventura straordinaria e irripetibile che Dio fa con ogni suo figlio. Una storia straordinaria per ognuno. Beato chi si accorge di stare in questa storia e fa la sua piccola parte prima di tutto per non sciuparla e poi per farla brillare nel modo più bello. Siamo alle porte dell’Avvento, un tempo che ci vuole mettere in guardia: attento, non distrarti, ché non sai quando Lui si fa vicino, quando Lui passa. Attento. E se ti dovesse capitare di cogliere il suo passaggio, fermalo. Il Signore vi benedica

p. Emanuele, p. Francesco e p. Amedeo

UNA CHIESA DALLE PORTE APERTE CHE SIA PORTO DI MISERICORDIA

Conclusione dell’assemblea generale ordinaria del sinodo dei vescovi-Omelia del santo Padre Francesco
Basilica di San Pietro – XXX domenica del Tempo Ordinario – Domenica, 29 ottobre 2023

È proprio un pretesto quello con cui un dottore della Legge si presenta a Gesù, e solo per metterlo alla prova. Tuttavia, la sua è una domanda importante, una domanda sempre attuale, che a volte si fa strada nel nostro cuore e nella vita della Chiesa: «Qual è il grande comandamento?» (Mt 22,36). Anche noi, immersi nel fiume vivo della Tradizione, ci chiediamo: qual è la cosa più importante? Qual è il centro propulsore? Che cosa conta di più, tanto da essere il principio ispiratore di tutto? E la risposta di Gesù è chiara: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Mt 22,37-39).
Fratelli Cardinali, confratelli Vescovi e sacerdoti, religiose e religiosi, sorelle e fratelli, a conclusione di questo tratto di cammino che abbiamo percorso, è importante guardare al “principio e fondamento” da cui tutto comincia e ricomincia: amare. Amare Dio con tutta la vita e amare il prossimo come sé stessi. Non le nostre strategie, non i calcoli umani, non le mode del mondo, ma amare Dio e il prossimo: ecco il cuore di tutto. Ma come tradurre tale slancio di amore? Vi propongo due verbi, due movimenti del cuore su cui vorrei riflettere: adorare e servire. Amare Dio si fa con l’adorazione e con il servizio.
Il primo verbo, adorare. Amare è adorare. L’adorazione è la prima risposta che possiamo offrire all’amore gratuito, all’amore sorprendente di Dio. Lo stupore dell’adorazione è essenziale nella Chiesa, soprattutto in questo momento in cui abbiamo perso l’abitudine dell’adorazione. Adorare, infatti, significa riconoscere nella fede che solo Dio è il Signore e che dalla tenerezza del suo amore dipendono le nostre vite, il cammino della Chiesa, le sorti della storia. Lui è il senso del vivere.
Adorando Lui ci riscopriamo liberi noi. Per questo l’amore al Signore nella Scrittura è spesso associato alla lotta contro ogni idolatria. Chi adora Dio rifiuta gli idoli perché, mentre Dio libera, gli idoli rendono schiavi. Ci ingannano e non realizzano mai ciò che promettono, perché sono «opera delle mani dell’uomo» (Sal 115,4). La Scrittura è severa contro l’idolatria perché gli idoli sono opera dell’uomo e da lui sono manipolati, mentre Dio è sempre il Vivente, che è qui e oltre, «che non è fatto come lo penso io, che non dipende da quanto io attendo da lui, che può dunque sconvolgere le mie attese, proprio perché è vivo. La riprova che non sempre abbiamo la giusta idea di Dio è che talvolta siamo delusi: mi aspettavo questo, mi immaginavo che Dio si comportasse così, e invece mi sono sbagliato. In tal modo ripercorriamo il sentiero dell’idolatria, volendo che il Signore agisca secondo l’immagine che ci siamo fatta di lui» (C.M. Martini, I grandi della Bibbia. Esercizi spirituali con l’Antico Testamento, Firenze 2022, 826-827). E questo è un rischio che possiamo correre sempre: pensare di “controllare Dio”, di rinchiudere il suo amore nei nostri schemi. Invece, il suo agire è sempre imprevedibile, va oltre, e perciò questo agire di Dio domanda stupore e adorazione. Lo stupore, è tanto importante!
Sempre dobbiamo lottare contro le idolatrie; quelle mondane, che spesso derivano dalla vanagloria personale, come la brama del successo, l’affermazione di sé ad ogni costo, l’avidità di denaro – il diavolo entra dalle tasche, non dimentichiamolo –, il fascino del carrierismo; ma anche quelle idolatrie camuffate di spiritualità: la mia spiritualità, le mie idee religiose, la mia bravura pastorale… Vigiliamo, perché non ci succeda di mettere al centro noi invece che Lui. E torniamo all’adorazione. Che sia centrale per noi pastori: dedichiamo tempo ogni giorno all’intimità con Gesù buon Pastore davanti al tabernacolo.
Adorare. La Chiesa sia adoratrice: in ogni diocesi, in ogni parrocchia, in ogni comunità si adori il Signore! Perché solo così ci rivolgeremo a Gesù e non a noi stessi; perché solo attraverso il silenzio adorante la Parola di Dio abiterà le nostre parole; perché solo davanti a Lui saremo purificati, trasformati e rinnovati dal fuoco del suo Spirito. Fratelli e sorelle, adoriamo il Signore Gesù!
Il secondo verbo è servire. Amare è servire. Nel grande comandamento Cristo lega Dio e il prossimo, perché non siano mai disgiunti. Non esiste un’esperienza religiosa che sia sorda al grido del mondo, una vera esperienza religiosa. Non c’è amore di Dio senza coinvolgimento nella cura del prossimo, altrimenti si rischia il fariseismo. Magari abbiamo davvero tante belle idee per riformare la Chiesa, ma ricordiamo: adorare Dio e amare i fratelli col suo amore, questa è la grande e perenne riforma. Essere Chiesa adoratrice e Chiesa del servizio, che lava i piedi all’umanità ferita, accompagna il cammino dei fragili, dei deboli e degli scartati, va con tenerezza incontro ai più poveri. Dio lo ha comandato, l’abbiamo sentito, nella prima Lettura.
Fratelli e sorelle, penso a quanti sono vittime delle atrocità della guerra; alle sofferenze dei migranti, al dolore nascosto di chi si trova da solo e in condizioni di povertà; a chi è schiacciato dai pesi della vita; a chi non ha più lacrime, a chi non ha voce. E penso a quante volte, dietro belle parole e suadenti promesse, vengono favorite forme di sfruttamento o non si fa nulla per impedirle. È un peccato grave sfruttare i più deboli, un peccato grave che corrode la fraternità e devasta la società. Noi, discepoli di Gesù, vogliamo portare nel mondo un altro lievito, quello del Vangelo: Dio al primo posto e insieme a Lui coloro che Lui predilige, i poveri e i deboli.
È questa, fratelli e sorelle, la Chiesa che siamo chiamati a sognare: una Chiesa serva di tutti, serva degli ultimi. Una Chiesa che non esige mai una pagella di “buona condotta”, ma accoglie, serve, ama, perdona. Una Chiesa dalle porte aperte che sia porto di misericordia. «L’uomo misericordioso – disse il Crisostomo – è un porto per chi è nel bisogno: il porto accoglie e libera dal pericolo tutti i naufraghi; siano essi malfattori, buoni, o siano come siano […], il porto li mette al riparo all’interno della sua insenatura. Anche tu, dunque, quando vedi in terra un uomo che ha sofferto il naufragio della povertà, non giudicare, non chiedere conto della sua condotta, ma liberalo dalla sventura» (Discorsi sul povero Lazzaro, II, 5).
Fratelli e sorelle, si conclude l’Assemblea Sinodale. In questa “conversazione dello Spirito” abbiamo potuto sperimentare la tenera presenza del Signore e scoprire la bellezza della fraternità. Ci siamo ascoltati reciprocamente e soprattutto, nella ricca varietà delle nostre storie e delle nostre sensibilità, ci siamo messi in ascolto dello Spirito Santo. Oggi non vediamo il frutto completo di questo processo, ma con lungimiranza possiamo guardare all’orizzonte che si apre davanti a noi: il Signore ci guiderà e ci aiuterà ad essere Chiesa più sinodale e più missionaria, che adora Dio e serve le donne e gli uomini del nostro tempo, uscendo a portare a tutti la consolante gioia del Vangelo.
Fratelli e sorelle, per tutto questo che avete fatto nel Sinodo e che continuate a fare vi dico grazie! Grazie per il cammino fatto insieme, per l’ascolto e per il dialogo. E nel ringraziarvi vorrei fare un augurio a tutti noi: che possiamo crescere nell’adorazione di Dio e nel servizio al prossimo. Adorare e servire. Il Signore ci accompagni. E avanti, con gioia!

TERZA GUERRA MONDIALE A PEZZI

Guerre, attentati, persecuzioni per motivi razziali o religiosi, e tanti soprusi contro la dignità umana vengono giudicati in modi diversi a seconda che convengano o meno a determinati interessi, essenzialmente economici. Ciò che è vero quando conviene a un potente, cessa di esserlo quando non è nel suo interesse. Tali situazioni di violenza vanno «moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo, tanto da assumere le fattezze di quella che si potrebbe chiamare una “terza guerra mondiale a pezzi”».]
Questo non stupisce se notiamo la mancanza di orizzonti in grado di farci convergere in unità, perché in ogni guerra ciò che risulta distrutto è «lo stesso progetto di fratellanza, inscritto nella vocazione della famiglia umana», per cui «ogni situazione di minaccia alimenta la sfiducia e il ripiegamento».[24] Così, il nostro mondo avanza in una dicotomia senza senso, con la pretesa di «garantire la stabilità e la pace sulla base di una falsa sicurezza supportata da una mentalità di paura e sfiducia».
Paradossalmente, ci sono paure ancestrali che non sono state superate dal progresso tecnologico; anzi, hanno saputo nascondersi e potenziarsi dietro nuove tecnologie. Anche oggi, dietro le mura dell’antica città c’è l’abisso, il territorio dell’ignoto, il deserto. Ciò che proviene di là non è affidabile, perché non è conosciuto, non è familiare, non appartiene al villaggio. È il territorio di ciò che è “barbaro”, da cui bisogna difendersi ad ogni costo. Di conseguenza si creano nuove barriere di autodifesa, così che non esiste più il mondo ed esiste unicamente il “mio” mondo, fino al punto che molti non vengono più considerati esseri umani con una dignità inalienabile e diventano semplicemente “quelli”. Riappare «la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare i muri, muri nel cuore, muri nella terra per impedire questo incontro con altre culture, con altra gente. E chi alza un muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito, senza orizzonti. Perché gli manca questa alterità».

Papa Francesco Dall’Enciclica Fratelli tutti numeri 25-27

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