Distinte Autorità,
Rappresentanti della società civile,
cari fratelli e sorelle, cari ragazzi e bambini, buongiorno!

È bello fare un applauso quando uno dice “buongiorno”, perché tante volte non ci salutiamo. È bello l’applauso al “buongiorno”. E grazie a Gianluigi e a quanti lavorano per questa iniziativa. Sono contento di essere ancora con voi perché, come sapete, il tema della natalità mi sta molto a cuore. Ogni dono di un figlio, infatti, ci ricorda che Dio ha fiducia nell’umanità, come sottolinea il motto “Esserci, più giovani più futuro”. Il nostro “esserci” non è frutto del caso: Dio ci ha voluti, ha un progetto grande e unico su ciascuno di noi, nessuno escluso. In questa prospettiva, è importante incontrarsi, lavorare insieme per promuovere la natalità con realismo, lungimiranza e coraggio. Vorrei riflettere un po’ su queste tre parole-chiave.

Prima: realismo. In passato, non sono mancati studi e teorie che mettevano in guardia sul numero degli abitanti della Terra, perché la nascita di troppi bambini avrebbe creato squilibri economici, mancanza di risorse e inquinamento. Mi ha sempre colpito constatare come queste tesi, ormai datate e superate da tempo, parlassero di esseri umani come se si trattasse di problemi. Ma la vita umana non è un problema, è un dono. E alla base dell’inquinamento e della fame nel mondo non ci sono i bambini che nascono, ma le scelte di chi pensa solo a sé stesso, il delirio di un materialismo sfrenato, cieco e dilagante, di un consumismo che, come un virus malefico, intacca alla radice l’esistenza delle persone e della società. Il problema non è in quanti siamo al mondo, ma che mondo stiamo costruendo – questo è il problema -; non sono i figli, ma l’egoismo, che crea ingiustizie e strutture di peccato, fino a intrecciare malsane interdipendenze tra sistemi sociali, economici e politici. [1] L’egoismo rende sordi alla voce di Dio, che ama per primo e insegna ad amare, e alla voce dei fratelli che ci stanno accanto; anestetizza il cuore, fa vivere di cose, senza più capire per cosa; induce ad avere tanti beni, senza più saper fare il bene. E le case si riempiono di oggetti e si svuotano di figli, diventando luoghi molto tristi (cfr Omelia della Messa per la comunità cattolica congolese, 1° dicembre 2019). Non mancano i cagnolini, i gatti…, questi non mancano. Mancano i figli. Il problema del nostro mondo non sono i bambini che nascono: sono l’egoismo, il consumismo e l’individualismo, che rendono le persone sazie, sole e infelici.

Il numero delle nascite è il primo indicatore della speranza di un popolo. Senza bambini e giovani, un Paese perde il suo desiderio di futuro. In Italia, ad esempio, l’età media attualmente è di quarantasette anni – ma ci sono Paesi del centro Europa che hanno l’età media si ventiquattro anni – e si continuano a segnare nuovi record negativi. Purtroppo, se dovessimo basarci su questo dato, saremmo costretti a dire che l’Italia sta progressivamente perdendo la sua speranza nel domani, come il resto d’Europa: il Vecchio Continente si trasforma sempre più in un continente vecchio, stanco e rassegnato, così impegnato ad esorcizzare le solitudini e le angosce da non saper più gustare, nella civiltà del dono, la vera bellezza della vita. E c’è un dato che mi ha detto uno studioso di demografia. In questo momento gli investimenti che danno più reddito sono la fabbrica di armi e gli anticoncezionali. Le une distruggono la vita, gli altri impediscono la vita. E questi sono gli investimenti che danno più reddito. Che futuro ci attende? È brutto.

Nonostante tante parole e tanto impegno, non si arriva a invertire la rotta. Come mai? Perché non si riesce a frenare questa emorragia di vita?

La questione è complessa, ma questo non può e non deve diventare un alibi per non affrontarla. Serve lungimiranza, che è la seconda parola-chiave. A livello istituzionale, urgono politiche efficaci, scelte coraggiose, concrete e di lungo termine, per seminare oggi affinché i figli possano raccogliere domani. C’è bisogno di un impegno maggiore da parte di tutti i governi, perché le giovani generazioni vengano messe nelle condizioni di poter realizzare i propri legittimi sogni. Si tratta di attuare serie ed efficaci scelte in favore della famiglia. Ad esempio, porre una madre nella condizione di non dover scegliere tra lavoro e cura dei figli; oppure liberare tante giovani coppie dalla zavorra della precarietà occupazionale e dell’impossibilità di acquistare una casa.

È poi importante promuovere, a livello sociale, una cultura della generosità e della solidarietà intergenerazionale, per rivedere abitudini e stili di vita, rinunciando a ciò che è superfluo allo scopo di dare ai più giovani una speranza per il domani, come avviene in tante famiglie. Non dimentichiamolo: il futuro di figli e nipoti si costruisce anche con le schiene doloranti per anni di fatica e con i sacrifici nascosti di genitori e nonni, nel cui abbraccio c’è il dono silenzioso e discreto del lavoro di una vita intera. E d’altra parte, il riconoscimento e la gratitudine verso di loro da parte di chi cresce sono la sana risposta che, come l’acqua unita al cemento, rende solida e forte la società. Questi sono i valori da sostenere, questa è la cultura da diffondere, se vogliamo avere un domani.

Terza parola: coraggio. E qui mi rivolgo particolarmente ai giovani. So che per molti di voi il futuro può apparire inquietante, e che tra denatalità, guerre, pandemie e mutamenti climatici non è facile mantenere viva la speranza. Ma non arrendetevi, abbiate fiducia, perché il domani non è qualcosa di ineluttabile: lo costruiamo insieme, e in questo “insieme” prima di tutto troviamo il Signore. È Lui che, nel Vangelo, ci insegna quel “ma io vi dico” che cambia le cose (cfr Mt 5,38-48): un “ma” che profuma di salvezza, che prepara un “fuori schema”, una rottura. Facciamo nostro questo “ma”, tutti, qui e ora. Non rassegniamoci a un copione già scritto da altri, mettiamoci a remare per invertire la rotta, anche a costo di andare controcorrente! Come fanno le mamme e i papà della Fondazione per la Natalità, che ogni anno organizzano questo evento, questo “cantiere di speranza” che ci aiuta a pensare, e che cresce, coinvolgendo sempre più il mondo della politica, delle imprese, delle banche, dello sport, dello spettacolo e del giornalismo.

Ma il futuro non si costruisce solo facendo figli. Manca un’altra parte molto importante: i nonni. Oggi c’è una cultura che nasconde i nonni, li manda alla casa di riposo. Adesso è cambiata un po’ per la pensione – purtroppo è così –, ma la tendenza è quella: scartare i nonni. Mi viene in mente una storia interessante. C’era una bella famiglia, dove il nonno viveva con loro. Ma con il tempo in nonno è invecchiato, e poi quando mangiava si sporcava… Allora il papà ha fatto costruire un tavolino, in cucina, perché ci mangiasse il nonno, così loro potevano invitare gente. Un giorno il papà torna a casa e trova uno dei bambini piccoli che lavorava con il legno. “Cosa stai facendo?” – “Un tavolino, papà” – “Ma perché?”- “Per te, per quando sarai vecchio”. Per favore, non dimenticare i nonni! Quando io, nell’altra diocesi, visitavo tanto le case di riposo, domandavo ai nonni – penso a un caso –: “Quanti figli ha?” – “Tanti” – “Ah, bene. E vengono a trovarla?” – “Sì sì, vengono sempre”. Poi, all’uscita, l’infermiere mi diceva: “Non vengono mai”. I nonni soli. I nonni scartati. Questo è un suicidio culturale! Il futuro lo fanno i giovani e i vecchi insieme; il coraggio e la memoria, insieme. Per favore, parlando di natalità, che è il futuro, parliamo anche dei nonni, che non sono il passato: aiutano il futuro. Per favore, abbiamo figli, tanti, ma abbiamo anche cura dei nonni! È molto importante.

Cari amici, vi ringrazio per quello che fate, grazie a tutti voi. Grazie a te per il tuo coraggio. Vi sono vicino e vi accompagno con la mia preghiera. E per favore, vi chiedo di non dimenticarvi di pregare per me. Ma pregate a favore, non contro! Grazie.
Questo “a favore e non contro” lo dico perché una volta, stavo finendo un’udienza e lì a venti metri c’era una signora, una vecchietta, piccolina, occhi bellissimi. Ha cominciato a dire: “Vieni, vieni!”. Simpatica. Mi sono avvicinato: “Signora come si chiama?” – mi ha detto il nome – “E quanti anni ha?” – “87” – “Ma cosa fa, cosa mangia per essere così forte?” – “Mangio i ravioli, li faccio io”. E mi ha dato la ricetta dei ravioli. E poi le ho detto: “Signora, per favore, preghi per me” – “Lo faccio tutti i giorni”. E io per scherzare le dissi: “Ma preghi a favore, non contro!”. E la vecchietta, sorridendo, mi disse: “Stia attento, Padre! Contro pregano lì dentro”. Furba! Un po’ anticlericale. E per favore: a favore, non contro, a favore.

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