O Signore, Signore nostro,

quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!
Voglio innalzare sopra i cieli la tua magnificenza,
con la bocca di bambini e di lattanti:
hai posto una difesa contro i tuoi avversari,
per ridurre al silenzio nemici e ribelli.
Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissato,
che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell’uomo, perché te ne curi?
Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,
di gloria e di onore lo hai coronato.
Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi:
tutte le greggi e gli armenti
e anche le bestie della campagna,
gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
ogni essere che percorre le vie dei mari.
O Signore, Signore nostro,

quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!

Salmi 8

GRANDE È IL TUO NOME SU TUTTA LA TERRA

di Don T. Bello

Qualcuno ha scritto che la meraviglia è la base dell’adorazione. Penso che sia proprio vero. Anzi, secondo me, l’empietà più grande non è tanto la bestemmia o il sacrilegio, la profanazione di un tempio o la dissacrazione di un calice, ma la mancanza di stupore.Diciamocelo con franchezza: oggi c’è crisi di estasi.È in calo il fattore sorpresa. Non ci si esalta per nulla. C’è in giro un insopportabile ristagno di déjà vu: di cose già viste, di esperienze già fatte, di sensazioni sottoposte a ripetuti collaudi. Siamo appiattiti dagli standard, omologati dagli schemi, prigionieri della ripetizione modulare. Sarà colpa della cibernetica o di chi sa quale altro
accidente. Ma è certo che la fantasia agonizza. Sopravvive, per fortuna, solo nei bambini. Tempo fa, dopo un temporale estivo, mentre in casa di amici con aria distratta contemplavo sulla terrazza l’arcobaleno che era apparso nel cielo non ancora sgombro di nuvole, ho sentito un bambino di cinque anni che diceva al fratellino più piccolo avvinghiato alla ringhiera accanto a me: «Senti, Alessandro, ora sai che cosa faccio? Mi arrampico sull’arcobaleno; mi nascondo nelle nuvole; poi scendo con la pioggia, e così faccio una sorpresa alla mamma».
Splendido! Avrei pagato chi sa quanto per attribuirmi i diritti di autore di quella frase: non tanto perché degna della poesia di Neruda, quanto perché vicina alla preghiera di un arcangelo!

O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra.

E l’attacco corale del Sal 8, nel quale si densifica il rapimento estatico di chi contempla la gloria di Dio, che si squaderna, come direbbe Dante, per tutto l’universo.

O Signore, nostro Dio,  quanto è grande il tuo nome su tutta la terra.

Se avessimo, appunto, gli occhi dei bambini, dovremmo esser capaci di leggere questa scritta su tutta la curva del cielo, da oriente a occidente. Con i caratteri incisi dai fulmini, nei giorni di tempesta.

Con bianchissimi cirri, nei tersi meriggi d’estate. Con nubi di fuoco, nelle notti di primavera. Cari ragazzi, non voglio provocarvi a esuberi sentimentali, ma non intendo neppure esimermi dal dovere di esortare tutti a fare più affido alle emozioni, incoraggiando, se non proprio dilatando, l’attitudine allo stupore. Non disdegnate, come se fosse un cedimento alla serietà, il tentativo di indicare nella bellezza la strada privilegiata attraverso cui il Signore rivela il suo nome. Il mare in tempesta o il firmamento nelle notti d’agosto, il colore dei fiori che spuntano sui crepacci o l’incantesimo delle vette innevate, lo struggimento musicale degli alberi che si torcono
nella bufera o lo splendore degli occhi di una donna, non hanno smesso di proclamare su tutta la terra la grandezza del nome di Dio. Senza stupore è difficile l’adorazione. Senza rapimenti estatici è impossibile la preghiera. Al massimo, con Dio, ci potrà essere rapporto mercantile, basato sulle contrattazioni della domanda e dell’offerta. Ma non abbandono fiduciale e, tanto meno, ebbrezza di amore. Imparate a giubilare.

Mi pare che sia sant’Agostino a darci la spiegazione etimologica e spirituale del «giubilo». E una parola chiaramente onomatopeica, e sta a indicare quel profondo gaudio interiore che, non potendosi esprimere con le parole, si traduce con un canto liberatorio, senza logica e senza apparenti contenuti: lalà, lalalà, lalalalà…
Giubilo. Canto senza parole. O meglio, parole che cedono sotto l’urto dei sentimenti e, non riuscendo a contenerli, si sfaldano prorompendo in colate di felicità e mutandosi in canto: lalà, lalalà, lalalalà…

Insegnate a giubilare. Voi ragazzi siete più bravi degli adulti in questo così innocente esercizio. Perché siete più congeniali all’intuizione che scavalca il raziocinio. Al rapimento che supplisce l’analisi concettuale. Al
canto senza parole. O forse perché siete più vicini a quella stagione della vita in cui, sia pure per un nonnulla, sovrabbonda un’altra operazione che, come il giubilo, si compie anch’essa senza parole: il pianto.

O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra. Lalà, lalalà, lalalalà…

Tratto da: Tonino Bello Scrivo a voi… Lettere di un vescovo ai catechisti EDB

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