O Signore, Signore nostro,

quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!
Voglio innalzare sopra i cieli la tua magnificenza,
con la bocca di bambini e di lattanti:
hai posto una difesa contro i tuoi avversari,
per ridurre al silenzio nemici e ribelli.
Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissato,
che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell’uomo, perché te ne curi?
Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,
di gloria e di onore lo hai coronato.
Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi:
tutte le greggi e gli armenti
e anche le bestie della campagna,
gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
ogni essere che percorre le vie dei mari.
O Signore, Signore nostro,

quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!

Salmi 8

LO HAI FATTO POCO MENO DEGLI ANGELI

di Don Tonino Bello

È morto l’altr’anno. Pace all’anima sua. Ma ogni volta che nella recita del breviario mi imbatto in quel versetto del salmo 8 che dice: L’hai fatto poco meno degli angeli, non posso fare a meno di ricordarmi di lui. Povero Giuseppe! Viveva allo sbando, come un cane randagio. Aveva trentasei anni, e metà dell’esistenza l’aveva consumata nel carcere. La mala sorte un po’ se l’era voluta da solo, per quella dissennata anarchia che gli covava nell’anima e lo rendeva irriducibile ai nostri canoni di persone perbene. Ma una buona porzione di sventura gliela procuravamo a rate tutti quanti. A partire da me che, avendolo accolto in casa, gli facevo pagare l’ospitalità con le mie prediche… per finire ai giovanotti del bar vicino alla stazione, che gli pagavano la bottiglia di whisky per godersi lo spettacolo di vederlo ubriaco. La sera, quando tornava in episcopio più tardi del solito e non gli andava di cenare, mi guardava con le pupille stralunate che si ritiravano all’insù lasciando vedere tutto il bianco degli occhi, e biascicava parole senza costrutto dalle quali, però, mi sembrava di capire: «Lo so, sono un verme, cacciami via, se vuoi: me lo merito». Quell’anno, alla fine di aprile, il santuario di
Molfetta, dedicato alla Madonna dei martiri, con speciale bolla pontificia veniva solennemente elevato alla dignità di basilica minore. La città era in festa, e per il singolare avvenimento giunse da Roma un cardinale il
quale, nella notte precedente la proclamazione, volle presiedere lui stesso una veglia di preghiera che si tenne nel santuario. Parlò con trasporto di Maria suscitando un vivo entusiasmo. Poi, prima di mandare tutti a dormire, diede la parola a chi avesse voluto chiedere qualcosa. Fu allora che si alzò un giovane e, rivolgendosi mi chiese a bruciapelo il significato di basilica a me Gli risposi dicendo che «basilica» è una parola che deriva greco e significa «casa del re», e conclusi con enfasi che il nostro santuario di Molfetta stava per essere riconosciuto come dimora del Signore del cielo e della terra. Il giovane, il quale tra l’altro disse che aveva studiato il greco, replicò che tutte queste cose le sapeva già, e che il significato di basilica come casa del re era
per lui scontatissimo. E insistette testardamente «Lo so che cosa vuol dire basilica. Ma perché basilica minore?» Dovetti mostrare nel volto un certo imbarazzo. Non avevo, infatti, le idee molto chiare in proposito. Solo più tardi mi sarei fatto una cultura e avrei capito che basiliche maggiori sono quelle di Roma, e basiliche minori sono tutte le altre. Ma una risposta qualsiasi bisognava pur darla, e io non ero tanto umile da dichiarare lì, su due piedi, davanti a un’assemblea che mi interpellava, e davanti al cardinale che si era
accorto del mio disagio, la mia scandalosa ignoranza sull’argomento. Mi venne, però, un lampo improvviso. Mi avvicinai alla parete del tempio e battendovi contro, con la mano, dissi: «Vedi, basilica minore è quella fatta di pietre, basilica maggiore è quella fatta di carne. L’uomo, insomma. Basilica maggiore sono io, sei tu! Basilica maggiore è questo bambino, è quella vecchietta, è il signor cardinale. Casa del re!». Il cardinale annuiva benevolmente col capo. Forse mi assolveva per quel guizzo di genio. La veglia finì che era passata la mezzanotte. Fui l’ultimo a lasciare il santuario. Me ne tornavo a piedi verso casa, quando una macchina mi raggiunse e alcuni giovani mi offrirono un passaggio. Lungo la strada, commentammo insieme la serata, mentre il tergicristallo cadenzava i nostri discorsi. Ma ecco che, giunti davanti al portone dell’episcopio, si presentò allo sguardo una scena imprevista. Disteso a terra a dormire, infracidito dalla pioggia e con una bottiglia vuota tra le mani, c’era lui: Giuseppe. Sotto gli abbaglianti della macchina, aveva un non so che di selvaggio, la barba pareva più ispida, e le pupille si erano rapprese nel bianco degli occhi. Ci fermammo muti a contemplare con tristezza, finché la ragazza che era in macchina dietro di me mormorò, quasi sottovoce: «Vescovo, basilica maggiore o basilica minore?». «Basilica maggiore» risposi. E lo portammo di peso a
dormire. All’alba, volli andare a vedere se si fosse svegliato. Avevo intenzione di cantargliene quattro.
Giuseppe riposava, sereno. Un respiro placido gli sollevava il petto nudo. Sotto le palpebre socchiuse luccicavano due pupille nerissime, e la barba dava al suo volto un tocco di eleganza. Forse stava sognando. Mi venne spontaneo rivolgermi al Signore a ripetere col salmo: Lo hai fatto poco meno degli angeli. Mi attardai per vedere se avesse le ali. Forse le aveva nascoste sotto il guanciale.

Tratto da: Tonino Bello Scrivo a voi… Lettere di un vescovo ai catechisti EDB

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