Perché nessuno dica … «io non lo sapevo»
Carissimi,
sono solo Matteo e Luca che parlano della figura di Giuseppe. E Matteo fa riferimento a come avvenne la nascita di Gesù annotando che: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». (Mt 1,18-21)
Maria lo porta nel grembo e lo dà alla luce, Giuseppe invece gli dà il nome. Dare un nome è diventato una questione molto curiosa. Tempo addietro se ne parlava poco perché il nome era pescato nella logica determinata dalle tradizioni. Uno riceveva il nome del nonno, della nonna, degli zii… oggi se ne parla molto prima, diventa uno dei preparativi agitati che accompagnano l’attesa. Ci si trova di fronte a un vastissimo ventaglio di scelte rispetto a una volta. Forse però ci è rimasto solo come preoccupazione estetica e di forma, senza legami con le radici e senza riferimenti a santi o a grazie ricevute. C’è quasi una gara a cercare l’appellativo più stravagante, il suono più originale, il nome più singolare e raro tanto da lasciare sbalorditi e con un palmo di naso tutti coloro che portano un nome semplice e comune. C’è chi ama anche il suono esotico e anglosassone.
Dare il nome è un compito dei genitori che sottoscrive la loro determinazione amorevole e adulta di occuparsi e di prendersi cura della creatura che hanno accolto. Ma dare il nome, lo si vede chiaramente dalla storia del falegname di Nazareth, non è un fatto semplice o scontato. Dare un nome non significa soltanto dare al proprio figlio da mangiare, offrirgli una casa, preoccuparsi che stia bene in salute e dargli ogni forma di cura necessaria; non comporta solo passargli delle buone e sane abitudini; non significa solo difenderlo dai pericoli e dalle insidie che incontrerà; non vuol dire solo dargli un’istruzione buona e sufficiente per cavarsela nella vita, un titolo per trovare un lavoro e guadagnare bene; non coincide con il sistemarlo in un posto sicuro, comodo e statale in modo che abbia una garanzia certa e tranquilla per tutto l’arco dell’esistenza; non significa fare in modo che sia rispettato e onorato e non viaggi solo e ignorato.
Dare un nome vuol dire far esplodere quella bellezza e quella grandezza che erano state pensate per lui prima che nascesse. Dare il nome vuol dire permettere che si realizzi e prenda forma quella singolarità unica che ci precede prima di venire al mondo e aspetta di sbocciare e di venire al mondo. Dare il nome non vuol dire mettere dentro educazione, sicurezze, qualità, valori, opportunità…ma tirare fuori il nome scritto da sempre, il nome proprio, quello nostro, quello fatto a nostra misura, quello che calza a pennello con la nostra vita, preciso per me. Non un nome comune. Ma un nome proprio. Proprio il mio. Dare un nome non vuol dire appiccicare addosso ai figli una storia preconfezionata, magari bella, sicura e ricca, ma vuol dire scoprire qual è la sua storia, la sua missione e la strada che è tracciata proprio per lui; accompagnarlo e portarlo fin sulla soglia e all’imbocco della strada che deve percorrere lui. La sua.
Oggi sembra sparita dall’orizzonte di molti genitori, di molte persone che hanno il compito di dare il nome, la preoccupazione di scoprire il nome che l’angelo ci suggerisce ancor prima che noi cominciamo a scegliere quello che ci piace di più e che fa più effetto all’orecchio di tutti. Molti non immaginano proprio che ci possa essere un nome diverso da quello che loro hanno deciso di dare. Dare un nome vuol dire scoprire nel figlio il Michelangelo, il Borsellino, la madre Teresa, il Beethoven, il Francesco, il Giuseppe Moscati, l’Aldo Moro… il capolavoro che aspetta il mondo.
No, non si tratta di avviare i figli al successo e alla notorietà che è come una luce che si accende su di noi e che ci può lasciare distrutti e prostrati quando si spegne. Si tratta di accendere la luce che ognuno porta dentro di sé. Quella che è capace di metterti in cammino, quella che ti fa alzare, quella che ti regala una pace e una gioia che non sono passeggere, ma la dolce consapevolezza di non stare fuori posto.
Non è un nome da inventare, che si riceve e che potrebbe non piacere, ma un nome nel quale ci si riconosce subito. Non è una scarpa stretta o scomoda, ma è quella che ti fa correre.
C’è un detto ebraico che racconta che alla fine non verremo giudicati se non siamo stati Mosè, ma se non siamo stati ciò che dovevamo essere. Cioè se abbiamo scoperto il nostro nome e lo abbiamo fatto vivere e risplendere.
Scoprire il proprio nome accende il cuore di passione e di slanci talmente forti che sono capaci di farti fare tratti lunghissimi senza fatica, di affrontare avversità insormontabili, di superare difficoltà più grandi di quelle che si conoscono comunemente.
Forse il vero compito dei genitori è svegliare il nome nel cuore dei figli. Se un genitore non fa questo ha tradito il suo compito.
- Giuseppe aiuta, ti preghiamo, tutti coloro a cui è stato affidato un figlio perché lo aiutino a non fallire in questo compito così grande e così sacro.
Il Signore vi benedica
- Emanuele, p. Mario, p. Franco, p. Amedeo
LETTERA DI PAPA FRANCESCO A UN GIOVANE FRATELLO IN RICERCA
Lettera che si trova all’inizio del libro “Francesco giullare di Dio” di R. Cantalamessa
Questo libro è stato voluto per te, mio giovane fratello in ricerca, e io vorrei introdurti alla sua lettura consegnandoti in dono parole colme della grande stima e fiducia che ripongo in te e in tutti i giovani.
Forse ti sarà capitato di aprire i Vangeli e ascoltare quello che Gesù disse un giorno nel famoso discorso della Montagna: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto» (Mt 7,7-8). Sono parole forti, cariche di una grande e impegnativa promessa, ma, potremmo domandarci: vanno prese sul serio? Davvero se io chiedo al Signore egli ascolterà la mia richiesta, se lo cerco lo troverò, se busso egli mi aprirà? Tu potresti obiettarmi: non è forse vero che a volte l’esperienza sembra smentire questa promessa? Che molti chiedono e non ottengono, che cercano e non trovano, che bussano alle porte del cielo e da dietro non si ode che silenzio? Allora ci si può fidare o no di queste parole? Non saranno anch’ esse, come le molte altre che sento intorno a me, fonte di illusione e quindi di delusione?
Comprendo i tuoi dubbi e apprezzo le tue domande – guai se non ne avessi! – , essi interrogano anche me e mi richiamano alla mente un altro passo della Scrittura che, accostato alle parole di Gesù, mi sembra le illumini in tutta la loro profondità. Nel libro di Geremia, il Signore dice per mezzo del profeta: «Mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il cuore; mi lascerò trovare da voi» (Ger 29,13-14). Dio si lascia trovare, sì, ma solo dall’uomo che lo cerca con tutto il cuore.
Apri i Vangeli, leggi degli incontri di Gesù con le persone che andavano a lui e vedrai come per alcuni di loro le sue promesse si sono realizzate. Sono quelli per cui trovare una risposta era divenuto questione essenziale. Il Signore si lasciò trovare dall’insistenza della vedova importuna, dalla sete di verità di Nicodemo, dalla fede del centurione, dal grido della vedova di Nain, dal pentimento sincero della peccatrice, dal desiderio di salute del lebbroso, dalla nostalgia della luce di Bartimeo. Ognuna di queste figure avrebbe potuto proferire con pieno diritto le parole del salmo 63: «Di te Signore ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’ acqua».
Chi cerca trova se cerca con tutto il cuore, se per lui il Signore diventa vitale come l’acqua per il deserto, come la terra per un seme, come il sole per un fiore. E questo, se ci pensi bene, è molto bello e molto rispettoso della nostra libertà: la fede non si dà in maniera automatica, come un dono indifferente dalla tua partecipazione, ma ti chiede di coinvolgerti in prima persona e con tutto te stesso. È un dono che vuole essere desiderato. È, in sostanza, l’Amore che vuole essere amato.
Forse tu hai cercato il Signore e non lo hai trovato, ma permetti anche a me di consegnarti una domanda: quanto era forte il tuo desiderio di Lui? Cercalo con tutto lo slancio del tuo cuore, prega, domanda, invoca, grida, ed egli, come ha promesso, si farà trovare. Il re dei versi, la cui storia leggerai nelle pagine che seguono, amava la vita e, come ogni giovane, desiderava viverla appieno. Era uno tra i più famosi cantori del suo tempo e nel suo impetuoso desiderio di pienezza cercava senza saperlo Colui che solo può riempire il cuore dell’uomo. Cercava e fu trovato.
Questo ci mostra una verità ancora più profonda: il Signore desidera che tu lo cerchi perché egli possa trovarti. Deus sitit sitiri disse san Gregorio di Nazianzo, cioè, Dio ha sete che si abbia sete di Lui, perché trovandoci così disposti egli possa finalmente incontrarci. Egli che ci invita a bussare, in realtà si presenta per primo alla porta del nostro cuore: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).
E se oggi bussasse alla tua porta? Il re dei versi incontrò frate Francesco un giorno nel monastero di Colpersito a San Severino Marche; fu trafitto dalla sua parola e una scintilla nuova si accese dentro di lui. Avvenne, forse, per lui, quello che avvenne per san Paolo sulla via di Damasco: che la luce di Dio «rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo» (2 Cor 4,6). Egli vide Francesco nello splendore della sua santità e in lui intravide la bellezza del volto di Dio. Quello che aveva sempre cercato ora finalmente lo trovava, e lo trovava grazie a un uomo santo. E, come per san Paolo, quelle cose che per lui erano guadagni le considerò una perdita, una spazzatura, dinanzi alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù (cf. Fil 3,7-9).
Subito ruppe ogni indugio: «Che bisogno c’è di aggiungere altro? Veniamo ai fatti. Toglimi dagli uomini e rendimi al grande Imperatore!».
Quando il Signore chiama a sé non vuole compromessi o tentennamenti da parte nostra, ma una risposta radicale. Gesù direbbe: «Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Mt 8,22). In quel giorno nacque un uomo nuovo, non più Guglielmo da Lisciano, il re dei versi, ma fra Pacifico, un uomo abitato da una pace nuova prima sconosciuta. Da quel giorno divenne tutto di Dio, consacrato interamente a lui, uno dei compagni più intimi di san Francesco, testimone della bellezza della fede.
Perciò, mio caro giovane, mentre ringrazio il carissimo padre Raniero per il nuovo dono che fa alla Chiesa con le preziose e sapienti pagine di questo libro, con la certezza che faranno tanto bene a chi le leggerà, auguro a te una proficua lettura, e ricorda: Dio non ha smesso di chiamare, anzi, forse oggi più di ieri fa sentire la sua voce. Se solo abbassi altri volumi e alzi quello dei tuoi più grandi desideri, la sentirai chiara e nitida dentro di te e intorno a te. Il Signore non si stanca di venirci incontro, di cercarci come il pastore cerca la pecora perduta, come la donna di casa cerca la moneta dispersa, come il Padre cerca i suoi figli. Egli continua a chiamare e attende con pazienza da noi la stessa risposta di Maria: «Ecco la serva del Signore: avvenga di me secondo la tua parola» (Lc 1,38). Se avrai il coraggio di lasciare le tue sicurezze e aprirti a Lui si schiuderà per te un mondo nuovo e tu, a tua volta, diverrai luce per gli altri uomini.
Grazie del tuo ascolto. Invoco su di te il Santo Spirito di Dio e anche tu, se puoi, non dimenticarti di pregare per me.
Tuo Papa Francesco
Vocazione. È la parola che dovresti amare di più.
Perché è il segno di quanto sei importante agli occhi di Dio.
È l’indice di gradimento, presso di Lui, della tua fragile vita.
Si, perché, se ti chiama, vuol dire che ti ama.
Gli stai a cuore, non c’è dubbio.
In una turba sterminata di gente risuona un nome: il tuo.
Stupore generale.
A te non aveva pensato nessuno. Lui sì!
Più che “vocazione”, sembra una “evocazione”. Evocazione dal nulla.
Puoi dire a tutti: si è ricordato di me.
E davanti ai microfoni della storia
(A te sembra nel segreto del tuo cuore)
Ti affida un compito che solo tu puoi svolgere. Tu e non altri.
Un compito su misura… per Lui. Sì, per Lui, non per te.
Più che una missione, sembra una scommessa.
Una scommessa sulla tua povertà
Ha scritto “T’amo” sulla roccia
sulla roccia, non sulla sabbia
come nelle vecchie canzoni.
E accanto ci ha messo il tuo nome.
Forse l’ha sognato di notte. Nella tua notte. Alleluja.
Puoi dire a tutti: non si è vergognato di me.
+ Don Tonino Bello (18/03/1935 – 20/04/1993)
«Ebbene, signori Consiglieri, io ve lo dichiaro con fermezza fraterna ma decisa: voi avete nei miei confronti un solo diritto: quello di negarmi la fiducia! Ma non avete il diritto di dirmi: signor Sindaco non si interessi delle creature senza lavoro (licenziati o disoccupati), senza casa (sfrattati), senza assistenza (vecchi, malati, bambini, ecc.). È il mio dovere fondamentale questo: dovere che non ammette discriminazioni e che mi deriva prima che dalla mia posizione di capo della città -e quindi capo della unica e solidale famiglia cittadina- dalla mia coscienza di cristiano: c’è qui in giuoco la sostanza stessa della grazia e dell’Evangelo! Se c’è uno che soffre io ho un dovere preciso: intervenire in tutti i modi con tutti gli accorgimenti che l’amore suggerisce e che la legge fornisce, perché quella sofferenza sia o diminuita o lenita. Altra norma di condotta per un Sindaco in genere e per un Sindaco cristiano in ispecie non c’è!»
Giorgio la Pira(Pozzallo, 9 gennaio 1904 – Firenze, 5 novembre 1977) è stato un politico e accademico italiano, sindaco di Firenze