Perché nessuno dica … «io non lo sapevo»

Carissimi,

Giuseppe, lo Sposo di Maria, viene definito uomo giusto. Dice papa Francesco: «sempre pronto a eseguire la volontà di Dio manifestata nella sua Legge», quindi una giustizia un po’ diversa da quella che intendiamo noi, ma neanche molto. Non solo una persona equa e imparziale ma un uomo buono, onesto, corretto. Questa giustizia -è chiaro- la pescava nella Legge di Dio, nella sua Parola. Non si confrontava solo con i propri pensieri che non sono sempre limpidi, con le sue emozioni che a volte tradiscono, con i suoi sentimenti che non sempre dicono il vero, con i propri impulsi che possono portare fuori strada. Giuseppe è un campione di semplicità. In questo tempo di pandemia abbiamo avuto conferma della corruzione e degli interessi che covano nei cuori di alcuni. Addolorano e possono portare a una triste rassegnazione e a pensare che non c’è niente da fare, le cose non cambieranno mai; neanche di fronte al dolore e alla morte hanno rinunciato ai loro progetti di rapina e di violenza, di spudorato egoismo e di perfide intenzioni. E mentre alcuni il mondo se lo divorano impunemente e lo calpestano, ci sono altri -i più- che lo amano e lo custodiscono senza sosta, proprio come ci è stato chiesto dal Creatore. Benedetto sei tu che lavori senza lamentarti, che non ti risparmi nella tua professione; benedetto sei tu che non pensi a come fregare il prossimo, ma a come servirlo meglio; benedetto sei tu che non gonfi i prezzi e non falsifichi le bilance per rubare; benedetto sei tu che non ti fai timbrare il cartellino dal tuo collega per andare a fare le cose tue; benedetto sei tu che non fai le scarpe al tuo collega, che non sei interessato a vincere, ma a fare il bene; benedetto sei tu che non chiedi mazzette e non offri la morte come se fosse un affare per il povero cristo che compra; benedetto sei tu che ti alzi ogni mattina per guadagnarti il pane per poi spezzarlo sulla semplice tavola della tua casa con i tuoi cari; benedetto sei tu che non metti i tuoi affari prima dei tuoi figli quando sei giovane e prima dei tuoi genitori quando ormai hanno bisogno di cure; benedetto sei tu che fai la differenziata e non butti tutto appena ti sei stancato delle cose che hai; benedetto sei tu che non ti metti contro i tuoi vicini e non passi oltre senza salutarli, anzi ti accorgi quando hanno bisogno di aiuto e sei attento alle loro esigenze; benedetto sei tu che non pensi ad avere di più, ma a condividere quello che hai, che non hai l’aria sempre arrabbiata e capricciosa di fronte alla vita, ma la sai accogliere con umiltà. Benedetto sei tu che non hai l’ambizione di essere sempre il primo, ma sei già contento di essere utile a qualcuno; benedetto sei tu che non metti su un’attività per diventare ricco, ma per rispondere a un bisogno che vedi in casa e intorno a te; benedetto sei tu che non ti servi della tua posizione per fare i tuoi affari; benedetto sei tu che non ti preoccupi di quello che dicono, ma di quello che fai; benedetto sei tu che ami tua moglie e tuo marito ogni giorno nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia; benedetto sei tu che ami ogni giorno i tuoi figli e non li vedi come un ostacolo alla tua libertà, ma il sacramento della tua fecondità e della tua grandezza; benedetto sei tu che non vuoi il male di nessuno e vedi in tutti un povero uomo come te; benedetto sei tu che sai metterti nei panni di chiunque pianga e sai ridere con chi è contento…

Forse non lo sai, ma tu porti addosso e in questo mondo il fascino dello Sposo di Maria, di quell’uomo che ha avuto a cuore la giustizia. Tu porti la bellezza di una semplicità che, anche se viene mortificata da tutti, è quella che tiene in piedi il mondo. Ho letto tempo fa che abbiamo perso tutti quando abbiamo cominciato ad apprezzare e ad applaudire i disonesti e abbiamo cominciato a ridere degli onesti. Anche nelle nostre case. Benedetto sei tu, uomo giusto. Un monumento, una volta tanto, andrebbe fatto a te.

Il Signore vi benedica

  1. Emanuele, p. Mario, p. Franco, p. Amedeo

Lettera a San Giuseppe

di don T. Bello seconda parte

Vedo, però che si fa tardi.

Il sole, calando sulla pianura di Esdrelon, illumina di porpora gli ultimi contrafforti dei monti di Galilea. E io ancora non ti ho detto la ragione fondamentale per la quale sono venuto qui da te. No, non è per affliggerti con le lamentazioni mistiche sulla cattiveria dei tempi, e neppure per evitare gli incroci pericolosi della mia civiltà, che ho trovato rifugio sentimentale nell’oasi della tua bottega, dove, tra tenaglie, lime e seghetti, attaccati in bella mostra alle pareti, sono rimasti attaccati anche i ricordi del tempo che fu; anzi, se ti ho dato quest’impressione di fuga all’indietro non giudicarmi un introverso pure tu, vittima magari di un raptus da regressione; bastano già gli psicanalisti che abbiamo da noi, di fronte ai quali devi difenderti dai tuoi stessi sentimenti, se non vuoi finire nella morsa della loro logica, impietosa, almeno quanto la morsa che sta sul tuo bancone di falegname! Mio caro San Giuseppe, io sono venuto qui, soprattutto per conoscerti meglio come sposo di Maria, come padre di Gesù, e come capo di una famiglia per la quale hai consacrato tutta la vita. E ti dico subito che la formula di condivisione espressa da te, come marito di una vergine, la trama di gratuità realizzata come padre del Cristo, e lo stile di servizio messo in atto come responsabile della tua casa, mi hanno da sempre così incuriosito, che ora non solo vorrei saperne qualcosa di più, ma mi piacerebbe capire in che misura questi paradigmi comportamentali siano trasferibili nella nostra società dell’usa e getta. Dimmi, Giuseppe, quand’è che hai conosciuto Maria? Forse un mattino di primavera, mentre tornava dalla fontana del villaggio con l’anfora sul capo e con la mano sul fianco, snello come lo stelo di un fiordaliso? O forse un giorno di sabato, mentre con le fanciulle di Nazareth conversava in disparte, sotto l’arco della sinagoga? O forse un meriggio d’estate, in un campo di grano, mentre abbassando gli occhi splendidi, per non rivelare il pudore della povertà, si adattava all’umiliante mestiere di spigolatrice? Quando ti ha ricambiato il sorriso e ti ha sfiorato il capo con la prima carezza, che forse era la sua prima benedizione e tu non lo sapevi? E la notte tu hai intriso il cuscino con lacrime di felicità. Ti scriveva lettere d’amore? Forse sì! E il sorriso con cui accompagni il cenno degli occhi verso l’armadio delle tinte e delle vernici mi fa capire che in uno di quei barattoli vuoti, che ormai non si aprono più, ne conservi ancora qualcuna! Poi una notte hai preso il coraggio a due mani e sei andato sotto la sua finestra, profumata di basilico e di menta e le hai cantato sommessamente le strofe del Cantico dei Cantici: “Alzati amica mia, mia bella e vieni, perché ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato, e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza. Alzati amica mia, mia bella e vieni! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave e il tuo viso è leggiadro. E la tua amica, la tua bella si è alzata davvero, è venuta sulla strada, facendoti trasalire, ti ha preso la mano nella sua e mentre il cuore ti scoppiava nel petto, ti ha confidato lì, sotto le stelle, un grande segreto. Solo tu, il sognatore, potevi capirla. Ti ha parlato di Jahvè. Di un angelo del Signore. Di un mistero nascosto nei secoli e ora nascosto nel suo grembo. Di un progetto più grande dell’universo e più alto del firmamento che vi sovrastava. Poi ti ha chiesto di uscire dalla sua vita, di dirle addio e di dimenticarla per sempre. Fu allora che la stringesti per la prima volta al cuore e le dicesti tremando: “Per me, rinuncio volentieri ai miei piani. Voglio condividere i tuoi, Maria, purché mi faccia stare con te”. Lei ti rispose di sì, e tu le sfiorasti il grembo con una carezza: era la tua prima benedizione sulla Chiesa nascente. Spero che dietro quegli assi di castagno appoggiati alla parete non ci sia nascosto qualche rabbino, esperto di teologia, se no troverà anche lui un buon capo d’accusa per deferirmi davanti all’“arcisinagogo”! Ma io penso che hai avuto più coraggio tu a condividere il progetto di Maria, di quanto ne abbia avuto lei a condividere il progetto del Signore. Lei ha puntato tutto sull’onnipotenza del Creatore. Tu hai scommesso tutto sulla fragilità di una creatura. Lei ha avuto più fede, ma tu hai avuto più speranza. La carità ha fatto il resto in te e in lei. Ma ora Giuseppe, cambiamo discorso! Sta arrivando una donna dal forno. Ecco, ti ha portato del pane, e la bottega si è subito riempita di fragranza. Frattanto colgo il destro di questa interruzione per osservare che sono davvero fortunato, dal momento che il Signore mi sta mettendo sotto gli occhi i simboli giusti nel momento giusto! Stavamo parlando di condivisione, ed ecco il segno più classico: il pane! Si direbbe che il pane, più che per nutrire, è nato per essere condiviso: con gli amici, con i poveri, con i pellegrini, con gli ospiti di passaggio! Spezzato sulla tavola, cementa la comunione dei commensali; deposto nel fondo di una bisaccia riconcilia il viandante con la vita; offerto in elemosina al mendico, gli regala un’esperienza, sia pure fugace di fraternità; donato a chi bussa di notte nel bisogno, oltre a quella dello stomaco, placa anche la fame dello spirito, che è fame di solidarietà; raccolto nelle sporte, dopo un pasto miracoloso sull’erba verde, sta ad indicare che a chi sa fare la divisione, gli riesce bene anche la moltiplicazione! È proprio vero, Giuseppe. Il pane è il sacramento più giusto del tuo vincolo con Maria. Lei morde ogni giorno quello di frumento, procuratole da te col sudore della fronte. Tu mordi il pane del tuo destino che l’ha resa Madre del Figlio di Dio. È per questo che per noi, o falegname di Nazareth, tu sei provocatore di condivisioni generose e assurde, appassionate e temerarie, al centro della sapienza e al limite della follia. Insegnaci, allora, a condividere il pane con i fratelli poveri, in questo nostro mondo, dove purtroppo muoiono ancora più di cinquanta milioni di persone per fame. Il pane da segno di comunione, si è trasformato in simbolo della scomunica, ed è divenuto il discrimine sul cui filo passa la logica della guerra: viene accaparrato dagli ingordi, non condiviso dai poveri, ammuffisce nelle credenze degli avidi, non allieta la madia degli umili, si accumula negli artigli di pochi, non si distribuisce sulle bocche di tutti! Sovrabbonda nei bidoni della spazzatura d’Europa, ma è sparito sulle mense desolate dell’Eritrea. Trabocca senza pudore negli opulenti cenoni del Nord, ma è sogno proibito per tutti i Sud della Terra! Viene diviso anche; sì, viene diviso, come gesto munifico di regalità, ma non viene restituito a chi ne ha diritto, con i canti gregoriani della penitenza e in nome della giustizia! Hai sentito mai dire, Giuseppe, che se i ghiacciai eterni dell’Ermon, si sciogliessero d’incanto, le acque sprofonderebbero a valle con copiose tracimazioni, il lago di Tiberiade diventerebbe un mare, il giordano strariperebbe, rompendo gli argini, e l’arsura dell’intera Palestina, verrebbe per sempre placata! E allora! Visto che presso l’Altissimo, ce ne sono pochi di santi così referenziati come te, perché non provochi un fenomeno simile, scongelando le ricchezze dalle mani di pochi e travolgendo la terra in un cataclisma di pane? E se questo ti sembra un miracolo troppo grosso per i tuoi mezzi, perché almeno non persuadi la Chiesa del Duemila a farsi carico con più fiducia della sorte degli ultimi, non solo spartendo le sue ricchezze con i poveri, ma soprattutto condividendo la miseria degli esclusi. Oggi più che mai vogliamo sperimentarti così, quale Protector Sancte Ecclesiae, Protettore della chiesa dei derelitti, degli emarginati, dei violentati, dei palestinesi, dei marocchini, dei terzomondiali, degli sfrattati, degli sfruttati, dei prigionieri, e degli inquilini di tutte le più squallide periferie dell’umanità. Capisco che se non mi rispondi non è solo perché tu sei l’uomo del silenzio, ma anche perché la fornaia si è attardata nella tua bottega. Ha visto la culla e non ha smesso di contemplarla per un istante. Poi si è curvata, ha steso il mantello per terra e l’ha riempito di trucioli e di segatura, di ritagli e di assicelle. Ogni sera, così, lei fa il carico per accendere il forno e a te rimane il pavimento pulito e un pane di granturco per la cena. Ma, a proposito, ora che siamo rimasti soli, vuoi spiegarmi, Giuseppe, come hai accolto il mistero di quella culla? E perché mai tu, l’uomo dei sogni, torni ogni tanto verso quel piccolo nido di legno, e trattieni il respiro, e tendi l’orecchio illudendoti di ascoltare un vagito? Oh, figlio della casa di Davide, raffrena la tua impazienza: il bambino che sta per nascere è sì un Dio gratuito, tanto gratuito che spunterà come rugiada sul vello, ma tu devi attendere ancora, e anche la culla deve attendere; anzi, non rimanerci male se ti dico che quel nido, costruito da te con tanta tenerezza, resterà vuoto per sempre: sarà troppo piccolo per tuo figlio, quando egli, dopo tanto peregrinare, metterà piede finalmente nella tua casa. Da ben altro legno del resto saranno cullate le membra del Dio fatto uomo! Ma stavolta non spetta a te costruirlo! Vedo che la notizia non ti turba granché. Hai così tanto imparato dalla gratuità purissima di Dio, da non provare il minimo sgomento al pensiero che la tua fatica non sarà compensata neppure dalla soddisfazione di sentirti utile a qualcosa. Culla o greppia, non t’importa. Non pretendi neppure contropartite affettive e continui ad attendere come dono, come semplice dono, da nulla provocato, se non dalla sua stessa liberalità, il tuo imprevedibile Dio: O cieli piovete dall’alto, o nubi mandateci il Santo, o terra, apriti o terra e germina il Salvatore. Anche la tua vita si è fatta dono. Un dono così grande, che in paragone quello filtrato dal seme corruttibile della carne, sembra appena l’acconto di un avaro. Un dono così libero che tutte le paternità messe insieme dai titolari della tua genealogia, non pareggiano il tuo diritto di chiamarti padre di Gesù. Un dono così radicale che, pur custodendo la verginità di Maria, ti fa una sola carne con lei infinitamente più di quanto non siano tutt’uno due sposi nel momento supremo dell’amore. Un dono così gioioso, che la tua contabilità non è segnata sui registri a partita doppia, contempla solo la voce in uscita. Tu non chiedi nulla per te. Neppure da Dio! Ma non per orgoglio, per sovraccarico d’amore, dai tutto senza calcolo, e non accantoni oggi frammenti oscuri di tempo, allo scopo di ritirare domani interessi di gloria per tutta l’eternità. Ssssttt….!!! Silenzio Giuseppe, un carro si è fermato alla tua porta. Entra un uomo, molto stanco, e poggia sul bancone un piccolo otre di vino, e dice: “Ho attraversato tutta la Giudea e la Samaria, e debbo raggiungere, prima che sia notte la terra di Zabulon. Ti ho portato un po’ di vino, dalle vigne di Engaddi, laggiù presso il Mar Morto. È di quello buono. Bevilo Giuseppe, alla mia salute con la tua sposa. So che aspettate un figlio”. Beh, stasera il Signore vuole mostrarsi particolarmente generoso anche con me, perché mi ha messo sotto gli occhi un altro simbolo, quello della gratuità e della festa. Dopo il pane della fornaia, ecco il vino del carrettiere, il vino che rallegra il cuore dell’uomo. Mah, vedo Giuseppe che ti accingi a chiudere, perché hai preso un orciolo di terracotta e stai uscendo per riempirlo d’acqua alla fonte vicina. Io allora approfitto della tua assenza per leggere in negativo quel simbolo della letizia, appoggiato sul bancone, e chiedermi se per caso questa mia irruzione di stasera nella tua bottega di Nazareth, non sia stata un’evasione puramente letteraria, in un mondo, che con quello in cui mi tocca vivere, non ha nulla da spartire. Ci vuole infatti un bel coraggio a dire che il vino è segno di gratuità e di festa, quando per noi è divenuto l’emblema drammatico dell’evasione e della fuga, che accomuna i tossici agli alcolisti, gli ultras ai barboni! Ma perché mai il vino si è pervertito in idolo fascinoso per chi getta le armi e rinuncia ad un’esistenza troppo faticosa da vivere? Il motivo c’è: abbiamo smarrito l’ebbrezza della gratuità e c’è rimasta solo l’ebbrezza dell’alcol! Sicché in un mondo regolato dai petroldollari, angosciato dai crolli di Wall Street, retto dalle bilance dei pagamenti, che irta con la speculazione, che si infischia dei debiti dei popoli in via di sviluppo, che si lascia sedurre dalla massimizzazione del profitto, che monetizza persino il rischio delle popolazioni, i cui terreni sono espropriati per farne basi militari, che sfrutta i poveri col traffico delle armi, che è sordo alle esigenze di un nuovo ordine economico internazionale. In un mondo del genere, come può esplodere la gioia? Ci si lascia vivere! Si amoreggia con il fatalismo! Ci si appiattisce in un’esistenza che scorre senza più stupore, senza spessore, come le immagini sul video. E noi compiamo le nostre scelte come se spingessimo i tasti di un telecomando. Crediamo di scegliere e invece siamo scelti! Si muore per anemia cronica di gioia, si moltiplicano le feste, ma manca la Festa! E le letizie diventano sbornie! Gli incontri frastuoni e i rapporti umani, orge da lupa mari! Meno male Giuseppe che hai fatto presto a tornare dalla fonte. Vedi in tua assenza sono stato colto da un pauroso deficit di speranza e ho temuto addirittura di dover uscire dalla tua bottega per la tangente del pessimismo! Ma ora che sei rientrato anche il vino di Engaddi, lassù sul bancone, torna a rosseggiare di letizia pasquale e risplende come simbolo della festa. Bevilo con Maria alla salute del carrettiere che te l’ha regalato; ma anche alla buona fortuna di tuo figlio che sta per nascere. Un giorno egli farà scorrere il vino sulle mense dei poveri, e sceglierà il succo della vite come sacramento del sabato eterno. Anzi, se non ti dispiace, mettimene un poco, in quel boccale di creta, me lo voglio portare come ricordo di quest’incontro, e anche di quell’acqua che sgocciola ancora sul pavimento, dammene un poco! Non è acqua inquinata quella! Le piogge acide, le discariche industriali e gli additivi chimici l’hanno ancora preservata, lasciandola come simbolo di purezza e di armonia ecologica. Dammi della tua acqua, la quale è molto utile, et humile, et pretiosa et casta. Ma dammela soprattutto perché, da quando tuo figlio la userà per lavare i piedi ai suoi amici, in una sera di tradimenti, del mese di Nisan, diverrà il simbolo di un servizio d’amore che è la spiegazione segreta della condivisione, della gratuità e della festa. E visto che ci siamo, dammi anche di quel pane! No, non tutto! Spezzamelo Giuseppe! Condividilo con me! Un giorno anche tuo figlio lo spezzerà prima di morire, e la speranza traboccherà sulla terra. L’acqua, il vino, il pane: la trilogia di un’esistenza ridotta all’essenziale! Li porterò con me, nella bisaccia del pellegrino. Mi serviranno tanto, sulla mia strada di viandante un po’ stanco. E serviranno tanto anche alla mia Chiesa, anzi quando mi chiederà qualcosa, spero di non aver null’altro da darle che questo: né denaro, né prestigio, né potere, ma solo acqua, vino e pane! Si è fatto tardi, Giuseppe. Si è fatto tardi, Giuseppe. Nella piazza non c’è più nessuno. I grilli cantano sul cedro del tuo giardino. sul cedro del tuo giardino. Nelle case, le famiglie recitano lo “Shemà Israel”. Nelle case, le famiglie recitano lo “Shemà Israel”. E tra poco Nazareth si addormenterà sotto la luna. Tra poco Nazareth si addormenterà sotto la luna. Di là, vicino al fuoco, là, vicino al fuoco, la cena è pronta. Cena di povera gente. L’acqua della fonte, il pane di giornata, e il vino di Engaddi. E poi c’è Maria che ti aspetta. E poi c’è Maria che ti aspetta. Ti prego: quando entri da lei, sfiorala con un bacio. Falle una carezza pure per me. Falle una carezza pure per me. E dille che anch’io le voglio bene. Da morire! E dille che anch’io le voglio bene. Da morire! Buona notte, Giuseppe! Buona notte, Giuseppe!

+ Don Tonino Bello (4 Marzo 1990)


Quarant’ore

22-24 marzo 2021

Ore 9.00-21.00 adorazione eucaristica con possibilità di confessarsi

8.00 ufficio e lodi; 8.30 S. Messa e adorazione continua; 19.00 S. Messa; 19.30 vespri

Una buona opportunità per mettere nel Cuore di Dio i nostri affanni,

i nostri desideri, le nostre paure, le nostre speranze.

Seguici: